Presentato il ricorso collettivo Green Pass lavoro e istruzione per violazione del principio di autodeterminazione sanitaria

“Abbiamo notificato e depositato presso la Corte d’Appello di Roma il nostro atto di appello e la Corte ha già fissato l’udienza di prima comparizione delle parti per il 25 gennaio 2024”, spiega l’avv. Alessandro Fusillo. “Vi invito a leggere l’atto di appello, soprattutto la parte dei motivi che è quella contenente la critica all’ordinanza del Tribunale di Roma, dalla quale emerge in modo chiaro come ci sia stata una violazione di un principio fondamentale, che è il principio di autodeterminazione sanitaria e che vale per tutto ciò che è connesso a questa infame tessera sanitaria e che sostanzialmente obbligava le persone o a sottoporsi a un tampone, oppure a sottoporsi al siero genico sperimentale.

Si tratta di una violazione gravissima che avrebbe dovuto indurre il Tribunale semplicemente a disapplicare le norme interne illegali e su questo continuiamo a battere nel nostro atto di appello a tutela delle libertà e dei diritti fondamentali dei cittadini. Ringrazio tutti quelli che hanno deciso di partecipare all’appello e sono tantissimi, è una battaglia importantissima quella che stiamo portando avanti e quindi sono fiducioso che riusciremo ad ottenere ragione. Siamo tenaci, non abbiamo nessuna intenzione di mollare, andremo avanti”

Appello

ECC.MA CORTE D’APPELLO DI ROMA CITAZIONE IN APPELLO

Per: i Signori: … tutti rappresentati e difesi, giusta procure telematicamente allegate al ricorso introduttivo, versate in atti nel giudizio di primo grado ed estese alla fase di gravame, dall’Avv. Alessandro Fusillo (c.f. FSLLSN68R03H501Z) presso il cui studio in Roma, Viale delle Milizie n. 22 e presso la cui pec alessandro.fusillo@pec.it eleggono domicilio, rispettivamente, fisico ed elettronico

-appellanti- Contro: 

la Presidenza del Consiglio dei ministri in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, con sede in Roma, Piazza Colonna n. 370 (codice fiscale 80188230587), rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato di Roma, con sede in Via dei Portoghesi n. 12, pec ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it

-appellato-

PER LA RIFORMA

dell’ordinanza ex art. 702 bis c.p.c. prot. 16375/2023 depositata in cancelleria il 19 luglio 2023 e comunicata il 28 luglio 2023 pronunciata dal Tribunale di Roma, Sez. II Civile, Giudice Dr.ssa

Assunta Canonaco nel procedimento tra le parti in epigrafe iscritto al n. 10702/2022

SINTESI

Gli appellanti impugnano l’ordinanza del Tribunale di Roma con la quale era rigettata la loro domanda di accertamento dei diritti fondamentali inviolabili al lavoro, allo studio, alla non discriminazione (uguaglianza) e libertà personale (autodeterminazione sanitaria). La violazione di tali diritti è riconducibile alle norme dei decreti-legge 44/2021 e 52/2021 che stabilivano l’obbligatorio possesso del certificato verde Covid-19 per esercitare tali diritti. L’ordinanza è errata poiché ha fondato la sua motivazione sul rinvio alle sentenze 14 e 15/2023 della Consulta che riguardavano questioni solo in parte sovrapponibili e, in particolare, non trattavano la questione della violazione degli artt. 10, 11 e 117 cost. Inoltre, l’ordinanza merita di essere riformata poiché viola l’art. 3 CDFUE, norma direttamente applicabile nel nostro ordinamento per tutta la materia sanitaria, la Convenzione di Oviedo che, sottoscritta dalla UE, costituisce parte del diritto eurounitario e vincola gli stati membri e il Regolamento 953/2021 che vietava la discriminazione di chi avesse scelto di non vaccinarsi.

PAROLE CHIAVE

Diritti fondamentali – lavoro – libertà personale – autodeterminazione sanitaria – studio – certificato verde Covid-19 – obbligo – violazione diritti fondamentali da parte del legislatore – risarcimento del danno morale ex artt. 2043 c.c. e 340 TFUE – primato del diritto eurounitario (art. 3 CDFUE, art. 5 Convenzione di Oviedo) – disapplicazione norme interne – incostituzionalità delle norme sull’obbligo di green pass – incostituzionalità dell’obbligo di certificato verde Covid-19 art. 11 e 117 cost.

FATTO

  1. Il ricorso introduttivo del giudizio

Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. gli odierni appellanti adivano il Tribunale di Roma esponendo di essere tutti lavoratori, dipendenti ed autonomi, in parte del settore scuola e università, in parte di altri settori pubblici e privati, taluni anche di età pari o superiore ai cinquanta anni nonché studenti universitari. Per ciascuno di essi si allegava la prova documentale dell’attività lavorativa svolta, prova che non veniva contestata da parte convenuta. Oggetto del ricorso era l’accertamento e la tutela risarcitoria (danno non patrimoniale) dei seguenti dirittifondamentali consacrati dalla Costituzione repubblicana e da una serie di normeeurounitarie ed internazionali e lesi dall’attività legislativa del governo e del Parlamento: – il diritto di eguaglianza sotto il profilo del diritto a non essere discriminati, – il diritto allalibertà personale sotto il profilo del diritto all’autodeterminazione sanitaria, – il diritto allavoro, – il diritto allo studio.

Il danno discendeva ed era causalmente connesso sotto il profilo eziologico con l’attività legislativa oggetto del giudizio da considerarsi fatto illecito. La norma invocata a fondamento dell’azione era il divieto del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. ed all’art. 340 TFUE che si applica anche allo Stato come persona giuridica. La funzione legislativa non è legibus soluta e deve sottostare allo scrutinio del giudice ordinario in quanto giudice dei diritti ai sensi dell’art. 2 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. E.

A sostegno delle proprie domande i ricorrenti esponevano che il governo della Repubblica Italiana aveva imposto il possesso della certificazione verde Covid-19 (per dimostrare lavaccinazione obbligatoria contro il Covid-19 o l’assoggettamento al tampone PCR) ad una ampia platea di studenti, lavoratori pubblici e privati, autonomi e dipendenti, giungendo ad escludere dallo studio e dal lavoro un numero crescente di cittadini, ivi compresi i ricorrenti.

Le norme che costituivano il fatto illecito di cui si chiedeva il risarcimento erano:

  1. il decreto-legge 44/2021 agli articoli 4, 4 bis, 4 ter e 4 quater che imponevano il vaccino contro il Covid-19, da dimostrare mediante l’esibizione del green pass, agli esercenti le professioni sanitarie, al personale scolastico, al personale del comparto della difesa e sicurezza, a quello delle università, del comparto AFAM e degli istituti tecnici superiori nonché a tutti i lavoratori ultracinquantenni e
  2. il decreto-legge 52/2021 (artt. 9 ter e ss.) che imponeva il certificato verde Covid-19 (rafforzato per le categorie soggette all’obbligo di vaccinazione) al fine di accedere ai luoghi di lavoro e di studio al personale scolastico e universitario, agli studenti universitari, al personale delle amministrazioni pubbliche, ai magistrati, avvocati e procuratori dello Stato, al personale militare e delle Forze di polizia di Stato, a quello della carriera diplomatica e prefettizia, al Corpo nazionale dei vigili del fuoco, al personale della carriera dirigenziale penitenziaria, ai professori e ricercatori universitari, al personale delle Autorità amministrative indipendenti, a tutti i lavoratori del settore privato.

I ricorrenti esponevano che i cinque vaccini approvati per la prevenzione della malattia Covid-19 erano farmaci sperimentali. Infatti, l’allegato tecnico alla decisione di autorizzazione condizionata alla messa in commercio della Commissione Europea (doc. 216) indicava che per tutti i preparati in questione gli studi sulla loro efficacia e sicurezza avrebbero dovuto essere prodotti tra maggio 2022 e luglio 2024. Le iniziative sinora tentate allo scopo di ottenere copia degli studi in questione sono fallite, poiché AIFA ha dichiarato di non essere in possesso degli studi (all. 1) mentre EMA, indicata da AIFA come organo cui rivolgere la richiesta, ha negato l’accesso poiché gli studi sarebbero coperti da segreto militare (all. 2). Illustravano, ancora, i ricorrenti che i vaccini finalizzati a prevenire il morbo Covid-19non erano conformi al decreto-legge 44/2021 che rendeva obbligatorio un trattamento,allo stato inesistente, che avrebbe dovuto prevenire l’infezione.

Inoltre, i ricorrenti esponevano che dai foglietti illustrativi ed allegati tecnici risultava che i vaccini erano stati elaborati per prevenire la malattia e non l’infezione e che la durata della loro protezione era incerta (doc. 4, 7, 10, 13 e 16). I documenti di sintesi (overview) (doc. 18, 19, 20, 21, 22) e i documenti di gestione dei rischi (doc. 23, 24, 25, 26, 27)dimostravano, poi, come fosse possibile che un soggetto vaccinato trasmettesse il virus ad altri e come la durata della protezione e come mancassero dati e informazioni fondamentali sugli effetti e sui rischi connessi alla somministrazione dei vaccini. Erano carenti o mancanti le informazioni sull’interazione dei “vaccini” con la gravidanza e l’allattamento o sui possibili effetti avversi a carico di soggetti affetti da malattie autoimmuni, infiammatorie, diabete, malattie neurologiche croniche e malattie cardiocircolatorie. Le stesse case farmaceutiche mettevano in guardia dalla malattia indotta dal “vaccino”, “vaccine-associated enhanced disease” (VAED) e dalla malattia respiratoria indotta da vaccino “vaccine-associated enhanced respiratory disease” (VAERD).

I ricorrenti producevano altresì letteratura scientifica (doc. 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 38) che dimostrava come i vaccini contro la malattia Covid-19 non riducono la diffusione del virus da parte dei soggetti vaccinati né evitano che questi si possano ammalare.

La prova della sussistenza di un numero importante di effetti avversi anche gravi e letali risultava dal rapporto di farmacovigilanza dell’AIFA (doc. 35).Le segnalazioni fatte da AIFA adEudravigilance (doc. 36) evidenziavano 412 casi di miocardite, 629 di pericardite, 557 diembolia polmonare, 349 di trombosi, 407 di trombocitopenia, 239 di paralisi di Bell, 100morti improvvise e 44 morti.

I ricorrenti sottolineavano (si veda il punto 4.5. di tutti gli allegati tecnici prodotti quali doc. 4, 7, 10, 13 e 16) che “non [erano] stati effettuati studi di interazione” con altri farmaci o altri vaccini.

Dalla produzione dei contratti tra le case farmaceutiche produttrici dei vaccini e la Commissione Europea (cfr. doc. 39, 40, 41) emergeva che quest’ultima aveva esonerato le prime da responsabilità per la mancanza di sicurezza o efficacia dei vaccini e per gli eventi avversi.

I ricorrenti evidenziavano, inoltre, che il British Medical Journal aveva pubblicato un’inchiesta (doc. 42) sulle gravi irregolarità negli studi clinici del “vaccino” Covid-19 di Pfizer, non nuova a simili pratiche commerciali scorrette (doc. 43).

Il quadro così delineato appariva ancor più preoccupante alla luce della prassi di inoculare i c.d. “vaccini” in seguito alla sottoscrizione di un modulo di consenso (doc. 44) mancante delle informazioni sulla natura sperimentale dei vaccini e senza la prescrizione medica checostituisce il presupposto necessario e indefettibile per procedere all’inoculazione dei“vaccini”. Ciò è previsto dalle decisioni di autorizzazione condizionata di immissione sul mercato delle cinque sostanze in questione (cfr. doc. 4, 7, 10, 13 e 16) che nell’Allegato II, Punto B, condizioni o limitazioni di fornitura e utilizzo, indicano che trattasi di “medicinale soggetto a prescrizione medica”.

La necessità della prescrizione medica era confermata, proseguivano i ricorrenti anche dalle determine di AIFA (doc. 4751) giacché l’Agenzia classificava i “vaccini” come farmaci che richiedono una prescrizione medica RRL (ricetta ripetibile limitativa).

Infine, i ricorrenti evidenziavano che il procedimento di autorizzazione dei vaccini sperimentali de quo violava il decreto ministeriale 15 luglio 1997 del Ministero della Sanità e producevano uno studio prodotto dall’Avv. Renate Holzeisen depositato presso il Senato quale parere tecnico in relazione alla conversione in legge dei decreti-legge 221 e 229/2021 (doc. 52). Ciò premesso, i ricorrenti illustravano di essere titolari dei diritti fondamentali all’eguaglianza (diritto a non essere discriminati), alla libertà personale (autodeterminazione sanitaria), al lavoro e allo studio, tutti aventi natura di diritti soggettivi perfetti che ciascuno può far valere erga omnes (Corte cost. sent. 122/1970).

I ricorrenti contestavano la tesi secondo la quale il diritto alla salute avrebbe prevalenza su altri diritti fondamentali perché il contenuto del diritto in questione è quello di avere accesso alle cure mediche, non di avere la garanzia di non ammalarsi, e, come statuito da C. Cost. n.85/2013 perché la carta fondamentale non consente l’espansione di uno solo di tali diritti sino a divenire tiranno nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente protette.  I ricorrenti sottolineavano, poi, che la “giustiziabilità” dei diritti fondamentali era un principio consolidato e citavano un caso analogo al presente deciso da Cass. civ., Sez. Unite, Ord., 24/11/2021, n. 36373 che affermava: – l’ammissibilità di una domanda tesa a far accertare il diritto al risarcimento del danno da illegittimo e discriminatorio esercizio della potestà legislativa contrastante con i principi eurounionali e tale da violare un diritto fondamentale tutelato costituzionalmente, – la riconducibilità dell’azione all’art. 2043 c.c. giacché la domanda di risarcimento del danno da illegittimo esercizio della potestà legislativa non invade la funzione sovrana, – la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario trattandosi di una causa in materia di diritti soggettivi.

I ricorrenti chiedevano, pertanto, anzitutto l’accertamento dei diritti che l’operato dellegislatore aveva violatoillustrandone rilevanza e contenuto nei loro profili costituzionale, eurounitario e di diritto internazionale.

Esponevano, dunque, che il diritto a non essere discriminati è consacrato nell’art. 3 della costituzione che vieta il trattamento diseguale fondato su diverse condizioni personali e sociali e che il fatto di avere subito o meno un trattamento sanitario o diagnostico-sanitario o di essere guariti dalla malattia Covid-19 costituisce una “condizione personale” che ai sensi dell’art. 3 impedisce che colui che vi si trovi subisca un trattamento discriminatorio.

I ricorrenti sottolineavano che la discriminazione è vietata dal Regolamento UE 953/2021 e dall’art. 21 CDFUE, entrambe norme di applicazione diretta nell’ordinamento italiano e, pertanto, tali da determinare la disapplicazione del diritto interno contrastante in applicazione del principio del primato del diritto dell’Unione Europea (CGCE 9.3.1978 Simmenthal, C106/77).

I ricorrenti mettevano in evidenza che il certificato verde Covid-19, introdotto con Regolamento 953/2021, costituisce un istituto dell’ordinamento giuridico europeo che comprende in generale la tutela della salute ai sensi dell’art. 168, n. 1, comma 2, TFUE. Infatti, la risposta alle pandemie avviene in modo coordinato a livello dell’Unione Europea (cfr.decisione n. 1082/2013/UE del 22.10.2013 del Parlamento Europeo) come è dimostrato dalfatto che i vaccini sono stati acquistati a livello centralizzato dalla Commissione per tuttal’Unione.

I ricorrenti illustravano che il Reg. UE 953/2021 impone il rispetto dei principi di proporzionalità e di non discriminazione (“Considerando 14 e 36) e della CDFUE. Pertanto, l’utilizzazione del certificato verde Covid-19 a fini di discriminazione tra cittadini era da ritenersi vietata. Il divieto di discriminazione è contenuto negli artt. 20 e 21 CDFUE che prevedono il primo il principio di eguaglianza davanti alla legge e il secondo il divieto di ogni discriminazione, qualunque ne sia il motivo.

Sotto il profilo del diritto internazionale i ricorrenti esponevano che il divieto di discriminazione era contenuto negli articoli 2 e 7 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU del 1948 e nell’art. 14 della CEDU (l. n. 848 del 4 agosto 1955) la cui violazione fu ritenuta dalle “sentenze gemelle” nn. 348 e 349/2007 della Corte costituzionale costituzionalmente rilevante ai sensi dell’art. 117 cost. Inoltre, il ricorso introduttivo sottolineava come il divieto di discriminazione fosse contenuto anche nell’art. 2 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali e nell’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottati il 16 e il 19 dicembre 1966 ed entrambi ratificati con legge n. 881 del 25 ottobre 1977.

I ricorrenti chiedevano altresì accertarsi il diritto all’autodeterminazione sanitaria come esplicazione della libertà personale consacrata nell’art. 13 cost.

I ricorrenti sottolineavano, inoltre, come l’obbligo di munirsi del green pass violasse il principio di proporzionalità e di rispetto del contenuto essenziale delle libertà fondamentali sanciti dall’art. 52 CDFUE.

I ricorrenti illustravo altresì che nell’ordinamento eurounitario il principio di autodeterminazione sanitaria (art. 3 CDFUE) non prevede eccezioni al principio del consenso libero e informato

I ricorrenti illustravano, poi, come l’autodeterminazione sanitaria fosse un diritto consolidato nel diritto internazionale citando fonti appartenenti sia al diritto consuetudinario che a quello pattizio, rilevanti come parametro di costituzionalità delle leggi ai sensi degli artt. 11 e 117 cost.  I ricorrenti chiedevano l’accertamento del loro diritto al lavoro (artt. 1, 4, 35 e 36 cost.) anche alla luce dell’art. 151 TFUE, della Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961, della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori e della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori.

L’obbligo di green pass incideva, inoltre, limitandolo, sul diritto allo studio (art. 33 e 34 cost.) funzionale al diritto al lavoro.

Sussisteva, proseguivano i ricorrenti, l’interesse all’accertamento dei diritti fondamentali in questione e vi era uno stato di incertezza oggettiva sull’esatta portata di tali diritti, funzionale all’azione ex art. 2043 c.c. giacché il primo elemento del giudizio riguardante la lesione del principio del neminem laedere è quello attinente all’ingiustizia del danno.

I ricorrenti esponevano che l’ingiustizia del danno ai loro diritti fondamentali comportava un concorso di possibili rimedi (Corte cost. sent. 20/2019) e cioè la rimessione alla Consulta della questione di legittimità costituzionale dei decreti-legge 44/2021 e 52/2021, la disapplicazione diretta delle norme interne incompatibili con quelle eurounitarie e/o il rinvio pregiudiziale alla CGUE ai sensi dell’art. 267 TFUE.

La responsabilità civile dello Stato, per illecito del legislatore che abbia mancato di attuare direttive comunitarie è stata affermata sia in base all’applicazione del diritto comunitario (in modo particolare degli artt. 5 e 189, l Trattato) (Cass. 7630/2003; Cass. 10617/1995; Cass. 4915/2003) sia in forza dell’art. 2043 (T.A.R. Puglia, Lecce 11.1.2017, n. 12).

Esponevano, poi, i ricorrenti che sussistevano i requisiti di cui all’art. 2043 c.c. (prova del fatto, elemento soggettivo, nesso eziologico) erano facilmente individuabili.

I ricorrenti chiedevano una valutazione equitativa del danno tenuto conto dello sconvolgimento esistenziale connesso non solo all’esclusione da ambiti fondamentali della vita umana e sociale come lo studio e il lavoro, ma anche alla “demonizzazione” da parte dello stesso governo di coloro che, nell’esercizio di una libera e legittima scelta, avessero deciso di non sottoporsi ad un trattamento medico farmacologico e/o diagnostico sanitario.

Tutto ciò premesso i ricorrenti adivano il Tribunale di Roma ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c. chiedendo accogliersi le seguenti conclusioni:

  1. Accertare e dichiarare che i ricorrenti sono titolari dei diritti fondamentali alla non discriminazione, alla libertà personale con particolare riferimento al diritto all’autodeterminazione sanitaria con la conseguente illegittimità ed illiceità dell’imposizione di qualsiasi trattamento medico farmacologico o medico-diagnostico, ed al lavoro inteso come diritto a guadagnarsi da vivere con un’attività lavorativa o professionale di propria scelta;
  2. Accertare e dichiarare che con le norme di cui ai decreti-legge 44/2021 e 52/2021, meglio illustrate in narrativa, la Repubblica Italiana ha violato i diritti in questione dei ricorrenti;
  3. Condannare per l’effetto la Repubblica Italiana a risarcire ai ricorrenti il danno morale subito in conseguenza della violazione dei loro diritti fondamentali e per l’effetto a pagare a ciascuno di essi una somma una tantum determinata dal Tribunale in considerazione di quanto esposto in narrativa e da liquidarsi in via equitativa con salvezza della richiesta in separati giudizi del danno patrimoniale e del danno biologico subito da ciascuno degli attori;
  4. Ritenuta la non manifesta infondatezza delle questioni di costituzionalità illustrate nel testo del ricorso rimettere gli atti alla Corte Costituzionale ai sensi dell’art. 23 della legge n. 87/1953;
  5. Disporre rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sottoponendo alla Corte i seguenti quesiti:
    1. Se le disposizioni di cui agli art. 3, 15 e 16 della CDFUE ostino a disposizioni legislative nazionali, come le norme di cui ai decreti-legge 44/2021 e 52/2021, che facciano obbligo a tutti o taluni cittadini a sottoporsi a determinati trattamenti sanitari farmacologici o diagnostico-sanitari sotto pena, in difetto, della perdita del diritto a svolgere la propria attività lavorativa;
    2. Se, in particolare, le indicate norme della CDFUE trovino diretta applicazione nel diritto degli stati membri allorché questi legiferino in materia di sanità pubblica;
    3. Se le disposizioni del regolamento UE 953/2021 ostino a disposizioni legislative nazionali, come le norme di cui ai decreti-legge 44/2021 e 52/2021, che facciano obbligo a tutti o taluni cittadini a sottoporsi a determinati trattamenti sanitari farmacologici o diagnostico-sanitari sotto pena, in difetto, della perdita del diritto a svolgere la propria attività lavorativa.

I ricorrenti producevano documentazione.

  1. Gli interventi e lo svolgimento del processo

Intervenivano nel giudizio per far valere le medesime domande una serie di altri lavoratori e studenti.

Fissata l’udienza di discussione e notificato il ricorso unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, si costituiva in giudizio la Presidenza del Consiglio rappresentata dall’Avvocatura dello Stato che eccepiva il mutato quadro legislativo, essendo cessati gli obblighi di esibizione del green pass e l’inammissibilità del ricorso perché volto a far dichiarare in via diretta l’illegittimità costituzionale delle norme. Nel merito la Presidenza del Consiglio sosteneva la legittimità delle misure adottate e la sicurezza ed efficacia dei vaccini de quo in quanto autorizzati dall’EMA. Sosteneva, inoltre, parte convenuta che gli obblighi vaccinali esulavano dalle competenze dell’Unione Europea e che non vi era prova di una norma del diritto internazionale che vieti l’imposizione di un obbligo vaccinale.    Nel corso del giudizio alcuni degli attori rinunziavano agli atti.

Assegnato un termine per note illustrative e discussa la causa all’udienza del 3 maggio 2023 il Tribunale tratteneva la causa in decisione. Con l’ordinanza qui impugnata, depositata il 18 luglio 2023 e notificata in forma cartacea il 28 luglio 2023 a causa di un malfunzionamento del sistema telematico il Tribunale respingeva il ricorso condannando gli attori a rifondere le spese di lite al convenuto.

  1. L’ordinanza impugnata

Il Tribunale di Roma motiva il rigetto delle domande attoree fondandosi sui seguenti argomenti.

  1. Le questioni poste dai ricorrenti ed intervenuti sono state risolte dalle sentenze nn. 14 e 15/2023 della Corte costituzionale che giustificavano anche una declaratoria di manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dai ricorrenti.
  2. L’art. 32 cost. contempera il diritto alla salute del singolo, anche nella sua dimensione negativa del diritto a rifiutare i trattamenti sanitari, con il principio di solidarietà, espressione dell’interesse delle collettività. Tale bilanciamento è avvenuto correttamente poiché il legislatore si è basato sui dati forniti dalle autorità istituzionali non potendosi affidare ad altri esperti. Il bilanciamento tra il diritto individuale e quello della collettività comporta il riconoscimento della discrezionalità del legislatore che può limitare il diritto all’autodeterminazione sanitaria in caso di sua accertata incompatibilità con l’interesse collettivo.
  3. Le conseguenze della mancata sottoposizione al vaccino non hanno natura sanzionatoria ma solo strettamente funzionali alla finalità perseguita di riduzione della circolazione del virus.
  4. La temporaneità degli obblighi fa sì che gli stessi possano essere ritenuti proporzionali.
  5. Non vi è violazione, dunque, dei diritti inviolabili dei ricorrenti e degli intervenuti né del diritto all’autodeterminazione trattandosi di scelte del legislatore adottate in un periodo pandemico non irragionevoli né sproporzionate.
  6. Il Regolamento 953/2021 vieta la discriminazione solo tra coloro che sono vaccinati e coloro che non lo sonno per motivi indipendenti dalla loro volontà e non vieta agli stati membri di introdurre forme di vaccinazione obbligatoria.
  7. L’art. 3 CDFUE non è applicabile alla materia di cui è causa poiché questa esula dall’attuazione del diritto dell’Unione Europea. L’art. 51 della Carta di Nizza limita, infatti, l’applicabilità della stessa alle sole controversie aventi ad oggetto norme che appartengono alle competenze dell’Unione.

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Avverso la predetta ordinanza si propone appello affidato ai seguenti

MOTIVI

  1. Violazione:
    • degli artt. 6 TUE, 3, 4, 6, 151, 168, 340 TFUE, 1, 7, 8, 14, 15, 16, 20 e 21 CDFUE,
    • degli artt. 207 e 216 TFUE in combinato disposto con gli artt. 2, 5, 10, 11, 26della Convenzione di Oviedo (ratificata con legge 145/2001)
    • degli artt. 340 TFUE, 2043 c.c., falsa applicazione dell’art. 51 CDFUE –mancata disapplicazione delle norme di cui ai decreti-legge 44/2021 e 52/2021in materia di vaccino e green pass obbligatori – violazione art. 112 c.p.c.Il primo e fondamentale errore dell’ordinanza impugnata consiste nel rigetto delle questioni eurounitarie poste dai ricorrenti e dagli intervenuti. Era stato chiesto al Tribunale, in forza dei principi dell’effetto utile e del primato del diritto eurounitario, di disapplicare le norme in materia di obbligo di green pass nei luoghi di lavoro e di studio a causa del contrasto tra le disposizioni dei decreti-legge 44/2021 e 52/2021 e varie disposizioni del diritto eurounitario, direttamente applicabili nel nostro ordinamento, riconducibili principalmente alla Carta di Nizza o Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE). L’illegalità e inapplicabilità delle norme interne costituisce, nell’impostazione del libello introduttivo, il fatto illecito e la ragione dell’ingiustizia del danno di cui gli attori chiedevano il risarcimento.
  • Capo della decisione di primo grado che viene impugnato

Il Tribunale ha respinto la domanda di disapplicazione con una motivazione errata in diritto per quanto riguarda la violazione dell’art. 3 CDFUE e mancante (omissione di pronuncia) per le altre norme eurounitarie tra le quali la Convenzione di Oviedo. La motivazione dell’ordinanza impugnata si riduce ad un breve passaggio alle pag. 200 e 201 in cui il Tribunale afferma: «Quanto poi al dedotto contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, deve evidenziarsi che la normativa indicata (che ha introdotto l’obbligo di vaccinazione per alcune categorie e ha regolamentato la certificazione verde) è riservata alla competenza dei singoli Stati dell’Unione. L’art. 3 della Carta Fondamentale dei diritti dell’Unione Europea si applica, a mente dell’art. 51 Carta, alle istituzioni, agli organi dell’Unione e agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione, mentre alla luce del secondo comma del medesimo articolo la Carta “non introduce competenze nuove e compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati.”»

  • Censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo gradoIl capo impugnato evidenzia l’errore commesso dal Tribunale nella ricostruzione del fatto processuale. Infatti, le argomentazioni degli attori riguardavano sì l’art. 3 CDFUE, ma erano riferite anche ad altri ambiti delle norme eurounitarie che l’ordinanza impugnata non menziona. Gli attori chiedevano l’accertamento della sussistenza in capo a ciascuno di essi di alcuni diritti fondamentali, ciascuno dei quali aveva una dimensione eurounitaria, una costituzionale ed una internazionale. La violazione delle norme dell’Unione Europea avrebbe dovuto condurre alla disapplicazione di quelle nazionali, la violazione delle norme costituzionali e di quelle internazionali avrebbe dovuto determinare il Tribunale a sollevare una questione di legittimità costituzionale. L’illiceità delle norme in quanto fatto illecito rientra nel principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. ed all’art. 340 TFUE onde la Repubblica Italiana è tenuta a risarcire agli attori il danno morale non patrimoniale cagionato con l’adozione delle norme de quo.

Il Tribunale ha preso in considerazione solo una delle domande attoree, e cioè la richiesta di accertamento della violazione del principio di autodeterminazione sanitaria di cui all’art. 3 CDFUE, senza esaminare né il principio stesso dagli altri punti di vista né le diverse questioni concernenti altri diritti fondamentali inviolabili previsti dal diritto eurounitario.

Sul punto il rinvio alle due sentenze 14 e 15 del 2023 della Corte costituzionale è inutile per la soluzione delle questioni sollevate dagli attori. Infatti, la Consulta, seguendo le argomentazioni dei giudici rimettenti, ha limitato il suo esame al mero aspetto dell’incostituzionalità ai sensi degli artt. 2, 3, 4, 32, 33, 34 e 97 cost. senza estendere la sua analisi agli aspetti internazionalistici. Nessuno dei giudici a quo, infatti, aveva sollevato la violazione degli artt. 11 e 117 cost., onde la diversità e novità delle questioni sollevate nel presente giudizio.  Per quanto riguarda la violazione dell’art. 3 della Carta di Nizza la decisione del Tribunale è errata in diritto, mentre per gli altri aspetti l’omesso esame delle questioni di diritto europeo fatte valere dagli attori comporta la violazione dell’art. 112 c.p.c. che impone al giudice di decidere tutta la domanda. Separata menzione merita la violazione della Convenzione di Oviedo che impone il principio di autodeterminazione sanitaria attraverso una fonte che rientra nel diritto dell’Unione Europea ma che è diversa dalla CDFUE.

  • Violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

In relazione all’affermata inapplicabilità dell’art. 3 CDFUE alla presente controversia, le norme violate dall’ordinanza sono gli artt. 6 TUE, 4, 168 e 340 TFUE mentre vi è stata la falsa applicazione dell’art. 51 CDFUE.

L’ordinanza non ha tenuto conto, inoltre, del combinato disposto tra l’art. 207 e 216 TFUE e gli artt. 1, 5, 10, 11 e 26 della legge 145/2001 di ratifica della Convenzione di Oviedo. La firma della Convenzione da parte dell’Unione Europea fa sì che questa entri a far parte del diritto dell’Unione vincolando gli stati membri.

Infine, vi è violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione agli artt. 6 TUE, artt. 14, 15, 16, 20 e 21 CDFUE, artt. 6, 9, 10, 19 e 165 TFUE in relazione agli artt. 2043 c.c. e 340 TFUE ed ai diritti fondamentali al lavoro, alla non discriminazione ed allo studio, che non sono stati presi in considerazione dall’ordinanza impugnata come parametri eurounitari tali da determinare la necessaria disapplicazione delle norme interne.

La rilevanza delle violazioni di legge indicate è in re ipsa. Se il Tribunale avesse preso in considerazione e ritenuto applicabili le norme eurounitarie che appresso andremo ad illustrare, avrebbe dovuto dichiarare inapplicabili le norme di cui ai decreti-legge 44/2021 e 52/2021. Rimosse le leggi illegali che avevano istituito gli obblighi di esibizione del certificato verde Covid-19, semplice o rafforzato da vaccinazione, l’azione legislativa del governo, ingiusta e lesiva dei diritti degli attori, avrebbe determinato la necessità della condanna di parte convenuta al risarcimento del danno morale cagionato ai ricorrenti ed intervenuti ai sensi degli artt. 2043 c.c. e 340 TFUE che sono stati violati di riflesso a causa del mancato riconoscimento dell’illegalità dell’operato del legislatore.

1.4. Violazione degli artt. 3 CDFUE, 6 TUE, 4 e 168, 216 e 340 TFUE, art. 2043 c.c. –falsa applicazione dell’art. 51 CDFUE

Il Tribunale ha ritenuto inapplicabile alla presente controversia il principio di autodeterminazione sanitaria di cui all’art. 3 CDFUE poiché la materia vaccinale non apparterrebbe alle competenze dell’Unione Europea. Pertanto, in forza dell’art. 51 della medesima Carta di Nizza, le sue disposizioni sarebbero inapplicabili in via diretta nell’ordinamento italiano.

L’art. 3 della CDFUE sarebbe, secondo il Tribunale, una contraddizione performativa. Se, infatti, la materia sanitaria esulasse dalle competenze dell’Unione non si comprende a che titolo i legislatori europei avrebbero inserito l’art. 3 nella Carta di Nizza. Si tratterebbe di una norma inutile e praticamente inapplicabile sia per quanto riguarda gli atti dell’Unione sia quelli degli stati membri. Che la sanità e la salute facciano parte delle competenze dell’Unione è invece noto lippis et tonsoribus. Tant’è che la Commissione Europea ha elaborato una strategia per i vaccini (all. 3) con particolare riferimento a quelli contro il Covid-19 (all. 4), ha acquistato i prodotti in questione a livello centrale per tutti gli stati membri (all. 5) e lo ha fatto in forza di due Regolamenti, il 2016/369 (all. 6) e il 2020/521 (all. 7) che le consentivano di intervenire in via diretta nella materia sanitaria: – realizzando strutture sanitarie, – sostenendo l’amministrazione nella realizzazione su vasta scala di analisi mediche, -realizzando strutture di quarantena, – sviluppando, producendo o acquistando e distribuendo i prodotti sanitari. Se la materia sanitaria non rientrasse nelle competenze dell’UE sarebbe incomprensibile l’istituzione dell’EMA (all. 8) e l’ampia legislazione eurounitaria in materia di autorizzazione dei farmaci, come il Regolamento (CE) n. 726/2004 (all. 9) che nel preambolo rinvia all’art. 152, comma 4, lett. b) (ora art. 168, comma 4, lett. b) TFUE) per indicare la fonte dei poteri di regolamentazione del settore farmaceutico in capo agli organi dell’Unione Europea (all’epoca Comunità Europea). La reductio ad absurdumdell’argomento sostenuto dall’ordinanza impugnata serve ad illustrare l’equivoco in cui è incorso il Tribunale. Tutta la materia sanitaria e farmaceutica rientra nelle competenze dell’Unione Europea, la legislazione nazionale in materia concorre con quella eurounitaria di cui costituisce attuazione, onde la necessità di rispettare la CDFUE.

Le competenze dell’Unione Europea sono disciplinate dagli artt. 3 e ss. del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Secondo l’art. 4, comma 2, lett. k) TFUE l’Unione ha competenza concorrente con quella degli stati membri sui problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica per quanto definito dal trattato. Le competenze dell’Unione in materia di sanità sono stabilite dall’art. 168 TFUE dal quale risulta che la UE, completando le politiche nazionali, si occupa di: – miglioramento della sanità pubblica, – prevenzione delle malattie e affezioni, – eliminazione delle fonti di pericolo per la salute fisica e mentale, – lotta contro i grandi flagelli specie a carattere transfrontaliero.

Ai sensi dell’art. 168, comma 4, TFUE, in conformità all’articolo 4, paragrafo 2, lettera k), il Parlamento europeo e il Consiglio contribuiscono alla realizzazione degli obiettivi in materia di salute adottando (…) c) misure che fissino parametri elevati di qualità e sicurezza dei medicinali e dei dispositivi di impiego medico. Pertanto, i vaccini rientrano nelle competenze dell’Unione e la Repubblica Italiana deve rispettare sul punto le disposizioni della CDFUE che, ai sensi dell’art. 6 TUE, ha la medesima efficacia dei trattati ed è, pertanto, norma di applicazione diretta.

Secondo l’articolo 168, paragrafo 7, TFUE il diritto dell’Unione non pregiudica la competenza degli Stati membri a adottare disposizioni destinate all’organizzazione di servizi sanitari.

Tuttavia, nell’esercizio di tale competenza, gli Stati membri devono rispettare il diritto dell’Unione.

Ciò costituisce ius receptum nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che ha più volte affermato che l’autonomia degli stati membri nell’adottare disposizioni in materia di salute e sanità è limitata dalla necessità di rispettare i principi del diritto dell’Unione dei quali fa parte come norma di applicazione diretta la CDFUE ai sensi dell’art. 6 TUE. Si vedano, ex multis:

CGUE, Sez. VI, 28/04/2022, C-86/21 Gerencia Regional de Salud de Castilla y León 

“In conformità dell’articolo 168, paragrafo 7, TFUE, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte, il diritto dell’Unione non pregiudica la competenza degli Stati membri ad adottare disposizioni destinate all’organizzazione di servizi sanitari. Tuttavia, nell’esercizio di tale competenza, gli Stati membri devono rispettare il diritto dell’Unione, e in particolare le disposizioni del Trattato FUE relative alle libertà fondamentali che comportano il divieto per gli Stati membri di introdurre o mantenere ingiustificate restrizioni all’esercizio di tali libertà nel settore delle cure sanitarie.”(conformi CGUE, Sez. III, 20/12/2017, C-419/16 Sabine Simma Federspiele CGUE, Sez. III, 21/09/2017, C-125/16 Malta Dental Technologists Association).

Il capo dell’ordinanza in cui il Tribunale di Roma ha dichiarato inapplicabile la CDFUE è dunque errato e viziato da violazione di legge poiché la disapplicazione delle disposizioni di diritto interno incompatibili con il diritto dell’Unione Europea rientra tra gli obblighi del giudice nazionale (C. cost. 111/2017).

Peraltro, anche a voler ammettere l’inapplicabilità diretta dell’art. 3 CDFUE il tribunale avrebbe dovuto rilevare comunque la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento agli art. 11 e 117 cost. che impongono al legislatore italiano di rispettare il diritto eurounitario. Infatti, secondo Corte cost. 269/2017 in caso di conflitto tra legge interna e norma eurounitaria è doverosa la disapplicazione diretta da parte del giudice nazionale laddove si tratti didisposizione europea direttamente applicabile. Se, invece, di tratti di una disposizione priva di effetti diretti il giudice nazionale è tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale. Il principio era già stato affermato da Corte cost. 284/2007 secondo la quale nei rapporti tra diritto comunitario e interno il controllo di costituzionalità non può essere escluso: – se la legge interna è diretta a impedire o pregiudicare l’osservanza dei Trattati europei in relazione al nucleo essenziale dei suoi principi (come nel caso in esame in cui le norme denunciate avevano lo scopo di aggirare il principio fondamentale europeo di autodeterminazione sanitaria), – se venga in rilievo il rispetto dei diritti fondamentali costituzionali italiano e dei diritti inalienabili della persona (come nel caso in esame in cui si trattava di stabilire i limiti ed il reciproco bilanciamento tra i diritti fondamentali alla salute ed alla libertà personale), – se vi sia un contrasto tra norma interna e norma comunitaria priva di applicabilità diretta.

La rimessione degli atti alla Consulta sarebbe stata doverosa anche alla luce del fatto che il giudice nazionale ha il dovere di cercare un’interpretazione delle norme interne conforme al diritto eurounitario, se del caso discostandosi dalla giurisprudenza costante (CGUE C-112/13 A, CGUE Grande Sez. C-441/14 Dansk Industri).

1.5. Violazione del combinato disposto tra gli artt. 207 e 216 TFUE e gli artt. 2, 5, 10, 11, 26 della Convenzione di Oviedo (ratificata con legge 145/2001) – violazione del principio del primato del diritto eurounitario, mancata disapplicazione delle disposizioni in materia di vaccinazione e green pass obbligatori dei decreti-legge 44/2021 e 52/2021

La Carta di Nizza costituisce il punto di approdo della legislazione eurounitaria in materia di bioetica, ma il principio di autodeterminazione sanitaria fa parte del diritto dell’Unione Europea già da un’epoca precedente. Infatti, l’Unione Europea è firmataria diretta della Convenzione sui Diritti dell’Uomo e la biomedicina, fatta a Oviedo il 4 Aprile 1997 e ratificata in Italia con legge 145/2001. Pertanto, il principio di libertà di cura e di autodeterminazione sanitaria deve essere rispettato da tutti gli stati membri e gode di una doppia copertura legislativa eurounitaria che si rinviene nell’art. 3 CDFUE e nell’art. 5 della Convenzione di Oviedo. La sottoscrizione diretta della Convenzione di Oviedo da parte dell’Unione vincola gli stati membri ai sensi degli artt. 207 e 216, comma 2, TFUE indipendentemente dal fatto che la legislazione interna di cui trattasi abbia lo scopo oppure no di attuare il diritto dell’Unione. Con la sottoscrizione della Convenzione di Oviedo il principio di autodeterminazione sanitaria entra a far parte del diritto eurounitario e deve essere rispettato dagli stati membri qualunque sia l’ambito della legislazione interna interessata.

La capacità di diritto internazionale dell’Unione e l’effetto della firma diretta dei trattati internazionali da parte dell’UE è stata approfondita da una consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Secondo CGUE, Grande Sez. C-600/14 Repubblica Federale di Germania, sebbene la determinazione delle competenze dell’Unione si fondi in linea generale sul principio di attribuzione di cui all’art. 5, comma 1, TUE, “45 (…) la competenza dell’Unione ai fini della conclusione di accordi internazionali può non soltanto essere attribuita espressamente dai trattati, ma altresì derivare implicitamente da altre disposizioni dei trattati e da atti adottati, nell’ambito di tali disposizioni, dalle istituzioni dell’Unione. In particolare, ogniqualvolta ildiritto dell’Unione abbia attribuito a tali istituzioni determinati poteri sul piano interno, onderealizzare un certo obiettivo, l’Unione è competente ad assumere gli impegni internazionalinecessari per raggiungere tale obiettivo, anche in mancanza di espresse disposizioni alriguardo. Quest’ultima ipotesi è ormai contemplata dall’articolo 216, paragrafo 1, TFUE [parere 1/13 (Adesione di Stati terzi alla Convenzione dell’Aia), del 14 ottobre 2014, EU:C:2014:2303, punto 67 e giurisprudenza ivi citata].

(…)

  • A termini dell’articolo 216, paragrafo 1, TFUE, “[l]’Unione può concludere un accordocon uno o più paesi terzi o organizzazioni internazionali qualora i trattati lo prevedano oqualora la conclusione di un accordo sia necessaria per realizzare, nell’ambito delle politichedell’Unione, uno degli obiettivi fissati dai trattati, o sia prevista in un atto giuridico vincolantedell’Unione, oppure possa incidere su norme comuni o alterarne la portata”.
  • Si evince dallo stesso tenore letterale di questa disposizione, in cui non si opera alcunadistinzione a seconda della natura esclusiva o concorrente della competenza esternadell’Unione, che l’Unione è investita di una siffatta competenza in quattro ipotesi.
  • Inoltre, risulta dal raffronto dei rispettivi disposti dell’articolo 216, paragrafo 1, TFUE e dell’articolo 3, paragrafo 2, TFUE che i casi nei quali l’Unione dispone di una competenza esterna, conformemente alla prima di tali disposizioni, non si limitano alle varie ipotesi previste dalla seconda di tali disposizioni, nelle quali l’Unione dispone di una competenza esterna esclusiva.”

La capacità di diritto internazionale dell’Unione e, per questa via, la potestà di vincolare gli stati membri va anche al di là delle competenze espressamente previste – ammesso che si voglia ritenere erroneamente, come ha fatto l’ordinanza impugnata, che la sanità sia esclusa dall’ambito delle competenze eurounionali – estendendosi anche alla realizzazione delle politiche dell’Unione. Che queste comprendano la salute in generale emerge dall’art. 168 TFUE e da una serie di atti dell’Unione dedicati alla salute in generale, alla materia vaccinale ed ai vaccini Covid-19 (cfr. ex multis gli all. 3, all. 4, all. 5, all. 6, all. 7, all. 8 e all. 9). Pertanto, la firma della Convenzione di Oviedo da parte dell’Unione vincola tutti gli stati membri al suo rispetto, quale che sia l’ambito legislativo in cui essi operano ed anche se ipoteticamente estraneo alle competenze dell’Unione.

Ancor più chiaro quanto esposto dalla Corte nel Parere 1/03 del 7.02.2006 (Seduta Plenaria) dove al punto 114 la CGCE esponeva:

“114 La competenza della Comunità a concludere accordi internazionali può non soltanto essere attribuita espressamente dal Trattato, ma altresì derivare implicitamente da altredisposizioni del Trattato e da atti adottati, nell’ambito di tali disposizioni, dalle istituzionicomunitarie (v. sentenza AETS, cit., punto 16). La Corte ha inoltre concluso che, ogniqualvolta il diritto comunitario abbia attribuito a tali istituzioni determinati poteri sul piano interno, onde realizzare un certo obiettivo, la Comunità è competente ad assumere gli impegni internazionali necessari per raggiungere tale obiettivo, anche in mancanza di espresse disposizioni al riguardo (citati pareri 1/76, punto 3, e 2/91, punto 7).”

La citata sentenza CGCE C-22-70 AETS aveva previsto: “(…) 15/19 (…) Nelle relazioni esterne, la Comunità può stabilire dei rapporti contrattuali con gli Stati terzi per l’intera gamma degli scopi enunziati nella prima parte del trattato, di cui la sesta costituisce la prosecuzione. Onde accertare, in un caso determinato, se la Comunità sia competente a concludere accordi internazionali, si deve prendere in considerazione sia il trattato nel suo complesso, sia le sue singole disposizioni. 

16/19 Detta competenza non dev’essere in ogni caso espressamente prevista dal trattato — come, ad esempio, negli artt. 113 e114 per gli accordi tariffari e commerciali e nell’art.238 per gli accordi d’associazione—ma può desumersi anche da altre disposizioni del trattato e da atti adottati, in forza di queste disposizioni, dalle istituzioni della Comunità. In particolare, tutte le volte che (per la realizzazione di una politica comune prevista dal trattato) la Comunità ha adottato delle disposizioni contenenti, sotto qualsivoglia forma, norme comuni, gli Stati membri non hanno più il potere—né individualmente, né collettivamente — di contrarre con gli Stati terzi obbligazioni che incidano su dette norme. Man mano che queste norme comuni vengono adottate, infatti, si accentra nella Comunità la competenza ad assumere e ad adempiere — con effetto per l’intera sfera in cui vige l’ordinamento comunitario — degli impegni nei confronti degli Stati terzi. Di conseguenza, nell’attuare le disposizioni del trattatonon è possibile separare il regime dei provvedimenti interni alla Comunità da quello dellerelazioni esterne.”

Ostano all’applicazione delle disposizioni in materia di green pass obbligatorio per accedere ai luoghi di lavoro e di studio gli artt. 2 (prevalenza dell’interesse individuale su quello collettivo e della scienza), 5 (principio del consenso informato e della libertà di cura), 10 (diritto alla riservatezza della vita privata), 11 (divieto di discriminazione per ragioni genetiche) e 26 (inviolabilità del divieto di discriminazioni per ragioni genetiche) della Convenzione.  In particolare, le modalità con cui i decreti-legge 44/2021 e 52/2021 hanno reso obbligatori, mediante l’obbligo di esibizione del green pass, il “vaccino” Covid-19 (per alcune categorie di lavoratori) e/o la sottoposizione con esito negativo al tampone PCR non è conciliabile con la regola generale di cui all’art. 5 della Convenzione che esige la prestazione di un consenso libero e informato ai fini della sottoposizione ad un trattamento nel campo della salute. Nel caso dei ricorrenti il consenso richiesto non può dirsi libero poiché in caso di sua mancanza la conseguenza era l’impossibilità di accedere al luogo di lavoro e, quindi, di guadagnarsi da vivere o ai luoghi di studio e, quindi, di esercitare il diritto fondamentale all’istruzione. Le conseguenze che, attraverso il necessario possesso del green pass, erano collegate alla mancata prestazione del consenso al trattamento farmacologico o diagnostico erano in grado di condizionare la volontà delle persone soggette alle norme di cui ai decreti-legge 44/2021 e 52/2021 escludendo in radice la possibilità che il consenso potesse essere definito libero. La logica dei decreti-legge 44/2021 e 52/2021 è, infatti, quella di uno stato etico che afferma il suo dominio eminente sul corpo dei cittadini arrogandosi il diritto di imporre le scelte che reputa più opportune e sanzionando i reprobi con l’esclusione da molti ambiti della vita sociale tra i quali, per quanto qui interessa, il lavoro e lo studio.

In questo contesto, merita sottolineare il divieto di discriminazione per ragioni genetiche di cui all’art. 11 della Convenzione. Ci sono molti studi scientifici che dimostrano che l’mRNA virale e vaccinale sia in grado di trascriversi nel DNA umano attraverso un enzima denominato trascrittasi inversa (cfr. all. 1118). Contrariamente a quanto inizialmente affermato, cioè che l’mRNA vaccinale avrebbe semplicemente indotto per un breve periodo le cellule a sintetizzare la sola proteina spike contro la quale il sistema immunitario avrebbe sviluppato degli anticorpi, appare ormai certo che il genoma vaccinale è in grado di integrarsi con quello umano determinando così una mutazione genetica. D’altro canto, lo sviluppo dei vaccini di nuova concezione rientra nelle nuove tecnologie che utilizzano l’mRNA come veicolo per introdurre nuove informazioni all’interno del DNA umano e che legano la tecnologia CRISPR con l’utilizzazione dell’mRNA come veicolo di trascrizione del nuovo genoma nel DNA umano (cfr. all. 11). I non vaccinati hanno quindi un patrimonio genetico diverso da coloro che abbiano optato per l’inoculazione giacché non hanno sviluppato per via vaccinale le istruzioni cellulari per la sintetizzazione della proteina spike e non condividono le modificazioni genetiche operate dai vaccini mediante la trascrittasi inversa. Con la conseguenza che la discriminazione dei primi mediante il divieto di accedere nei posti di lavoro e di studiare costituisce proprio la discriminazione geneticavietata dalla Convenzione di Oviedo e dalla Dichiarazione universale sul genoma umano adottata dall’UNESCO l’11 novembre 1997 (all. 10). Infatti, la possibilità di adottare misure restrittive dei diritti stabiliti dalla Convenzione in quanto necessarie in una società democratica per la sicurezza pubblica, la prevenzione dei reati, la tutela della salute pubblica o la protezione dei diritti e delle libertà altrui incontra un ostacolo nel secondo comma dell’art. 26 che impedisce in ogni caso la discriminazione per ragioni genetiche. Ciò posto, il principio di autodeterminazione sanitaria di cui all’art. 5 della Convenzione è assoluto e inviolabile, non consente deroghe laddove queste comportino discriminazione per ragioni genetiche, costituisce parte integrante del diritto eurounitario ed è, pertanto, insuscettibile di violazione da parte del legislatore nazionale.

Quand’anche la Corte dovesse ritenere che non si tratti nella specie di discriminazione per ragioni genetiche occorrerebbe comunque valutare, ai sensi dell’art. 26 della Convenzione, se l’imposizione del green pass sia una misura necessaria in una società democratica alla protezione della salute pubblica, se, in altri termini, lo strumento utilizzato sia rispettoso del principio di proporzionalità.

Sul punto non vi è giurisprudenza se non quella derivante dall’analoga disposizione dell’art. 8 CEDU. La sentenza dell’8 aprile 2021 (Vavricka e altri) contiene degli elementi di valutazione che possono essere estesi anche alla presente controversia. La Corte ritenne l’obbligo di vaccinazione per i minorenni proporzionale e necessario in una società democratica sulla base delle seguenti considerazioni: a) la possibilità di opporre un’obiezione di coscienza laica e religiosa alla vaccinazione, b) la prevalenza degli interessi dei minori, c) la proporzionalità della sanzione consistente in una multa di modesto ammontare e nell’esclusione dei bambini non vaccinati dagli asili pubblici, ferma restando la loro ammissione a partire dall’età scolare.

Al contrario, la sanzione imposta dai due decreti-legge 44/2012 e 52/2021 a chi rifiutava la vaccinazione anti Covid-19 e/o, a seconda dei casi, la sottoposizione continua al tampone PCR appare, invece, manifestamente sproporzionata e comunque non necessaria in una società democratica: a) perché non è prevista la possibilità di un’obiezione di coscienza ai trattamenti obbligatori, b) perché si tratta di trattamenti imposti a tutti ed estranei all’ambito della tutela dei minori, c) perché la sanzione, consistente nell’impossibilità di lavorare e guadagnarsi da vivere, imponendo la miseria ai reprobi è assolutamente sproporzionata e non necessaria. Nel caso del green pass imposto indiscriminatamente a larghissime fasce dei lavoratori e degli studenti non valgono nemmeno le considerazioni in merito all’ipotetico dovere rafforzato di solidarietà e di protezione dei soggetti più fragili dal punto di vista medico che sono state svolte dalla Consulta con riferimento all’obbligo imposto agli operatori sanitari. La sanzione è sproporzionata e l’obbligo di munirsi del green pass è chiaramente lesivo del principio eurounitario inderogabile dell’autodeterminazione sanitaria.

1.6.Violazione dell’art. 112 c.p.c. e degli artt. 14, 15, 16, 20 e 21 CDFUE, artt. 6, 9, 10,19 e 165 TFUE in relazione agli artt. 2043 c.c. e 340 TFUE

Il riconoscimento del diritto fondamentale inviolabile all’autodeterminazione sanitaria è di per sé sufficiente a definire il giudizio. Tuttavia, qualora la Corte dovesse condividere l’orientamento dell’ordinanza impugnata che ha ritenuto insussistente un simile diritto, sia in forza delle disposizioni interne del nostro ordinamento sia per la ritenuta inapplicabilità delle disposizioni eurounitarie in proposito, sarebbe necessario esaminare gli altri diritti fondamentali di cui si è chiesto l’accertamento e la tutela risarcitoria. Sul punto il Tribunale nulla ha disposto violando l’art. 112 c.p.c. che impone al giudice di decidere tutta la domanda.

Gli attori avevano chiesto che fosse accertata la loro titolarità di alcuni diritti inviolabili e precisamente il diritto al lavoro, quello allo studio e quello alla non discriminazione. Diritti, questi, sanciti dagli artt. 14, 15, 16, 20 e 21 della Carta di Nizza. Avevano chiesto, inoltre, l’accertamento della violazione dei diritti in quesitone da parte della Repubblica Italiane e la condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni morali cagionati.

Il Tribunale avrebbe dovuto esaminare e decidere queste domande e l’omissione di ogni cenno alle stesse integra un vero e proprio caso di omissione di pronuncia. Peraltro, il rinvio alle sentenze nn. 14 e 15 della Consulta e la trattazione della causa come se oggetto della stessa fosse solo l’obbligo di vaccinazione imposto ad alcune categorie di lavoratori legittima il dubbio che il Tribunale non si sia reso conto del fatto che l’oggetto delle domande era ben più ampio e coinvolgeva una serie di diritti fondamentali diversi e ulteriori rispetto all’autodeterminazione sanitaria.

La tesi dell’inapplicabilità dell’art. 3 CDFUE poiché le norme interne censurate (decreti-legge 44/2021 e 52/2021) non costituirebbero attuazione di norme dell’Unione Europea non si estende agli altri diritti fondamentali indicati dagli attori, sicché non è ipotizzabile nemmeno un rigetto implicito delle domande che si ripropongono in questa sede dovendosi intendere integralmente riportato e trascritto il ricorso introduttivo (si vedano in particolare i capitoli VI e VIII) dedicati al diritto alla non discriminazione (uguaglianza) ed al lavoro.

La tesi, sostenuta erroneamente dal Tribunale, che vorrebbe la salute esclusa dall’ambito delle competenze dell’Unione Europea, è, se possibile, ancor meno fondata per quanto riguarda gli ambiti del lavoro (subordinato e autonomo) e dell’istruzione.

L’ambito del lavoro dipendente o autonomo rientra tra le competenze dell’Unione Europea ai sensi degli artt. 3, 4, 45 e ss. e 56 e ss. TFUE che sanciscono il principio della libera circolazione dei lavoratori e la libera prestazione dei servizi. Il diritto allo studio e all’istruzione è sancito dagli artt. 6, 9 e 165 TFUE fa parte delle competenze dell’Unione. Trattasi, come esposto ai punti precedenti, di una competenza concorrente tra stati membri e Unione, con la conseguenza che la legislazione interna, oltre a dover attuare le disposizioni eurounitarie rilevanti, è vincolata al rispetto delle norme di applicazione diretta, tra le quali il TFUE e la CDFUE (cfr. art. 6 TUE).  La materia particolare della discriminazione riguardante l’accesso al posto di lavoro e l’esercizio del diritto al lavoro è da sempre oggetto di particolare attenzione da parte dell’ordinamento dell’Unione. In particolare, gli artt. 10 e 19 TFUE impongono all’Unione e agli stati membri di combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale. Il principio di non discriminazione è stato ripetutamente affermato dalla Corte di Giustizia a partire dalla fondamentale decisione C-43/75 Defrenne (si vedano in particolare i paragrafi da 27/29 a

35/37) ed ha trovato definitiva sistemazione legislativa a livello eurounitario nella Direttiva2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 con cui era stabilito (art. 1) “un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”. La direttiva si applica alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, all’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale – onde la sua applicabilità anche al diritto allo studio universitario– nonché alle condizioni di lavoro, compresa la retribuzione (art. 3) e vieta la discriminazione che sussiste quando sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1 (ivi comprese, quindi, le convinzioni personali, nel nostro caso contrarie alla sottoposizione ad un trattamento sanitario farmacologico o diagnostico) una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga. L’estensione del requisito del green pass a tutti gli studenti universitari ed a tutti i lavoratori appartenenti ad un ambito amplissimo di categorie e a tutti quelli individuati semplicemente dal fatto di essere ultracinquantenni (discriminazione basata sull’età ex art. 10 e 19 TFUE) non può trovare alcuna legittima giustificazione e, come ampiamente esposto, viola il canone della proporzionalità in considerazione della possibilità per il legislatore di individuare altre misure atte ad evitare la diffusione del virus SARS-CoV-2 meno invasive del diritto al lavoro e allo studio e rispettose dei diritti fondamentali.

Non vi è dubbio che il diritto al lavoro e allo studio sussistano in base all’ordinamento dell’Unione Europea e che tali diritti siano stati lesi dal legislatore italiano in base alla normativa dei decreti-legge 44/2021 e 52/2021. Il Tribunale avrebbe dovuto accertare tali diritti, il che costituiva il primo capo di domanda, dichiararne, inoltre, la violazione da parte della normativa indicata e, sulla base di tale violazione (danno ingiusto) e del combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 340 TFUE avrebbe dovuto condannare la Repubblica Italiana a risarcire agli attori il danno morale subito. Su questi capi di domanda, riferiti ai diritti al lavoro, allo studio e alla non discriminazione, il Tribunale non ha provveduto e chiediamo che lo faccia la Corte d’Appello ed a tal fine si ripropongono ex art. 346 c.p.c. le domande che il Tribunale non ha deciso.

  1. Violazione del Reg. UE 953/2021

Gli attori avevano esposto anche un’altra tesi e cioè quella del necessario rispetto della CDFUE in forza delle disposizioni del Regolamento UE 953/2021. Poiché il certificato verde Covid-19 è un istituto del diritto dell’Unione, opinavano gli attori, e poiché il Regolamento 953/2021 esige espressamente che gli stati rispettino la CDFUE nel dare attuazione al green pass, le norme di cui ai decreti-legge 44/2021 e 52/2021 che violano i diritti fondamentali previsti dalla

CDFUE (autodeterminazione sanitaria art. 3, istruzione art. 14, lavoro e libertà d’impresa artt. 15 e 16, uguaglianza e non discriminazione artt. 20 e 21) non sono rispettose del Regolamento e devono essere disapplicate per tale ragione.

2.1.Capo della decisione di primo grado che viene impugnato

La questione è stata decisa nel capo contenuto all’inizio della pag. 200 dell’ordinanza impugnata dove il Tribunale escludeva la violazione del Regolamento 953/2021 facendo presente che ai sensi del “Considerando 36” la discriminazione era vietata solo nei confronti delle persone che non avevano avuto l’opportunità di essere vaccinate per motivi indipendenti dalla loro volontà ma non di coloro che avevano scelto di non essere vaccinate rispetto ai quali non sarebbe stato sussistente alcun obbligo di rispettare le disposizioni della Carta di Nizza. A sostegno della propria argomentazione il Tribunale trascriveva quello che riteneva erroneamente essere il testo del “Considerando 36”.

2.2.Censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo gradoIl fatto processuale va ricostruito anzitutto dando atto della circostanza che gli attori avevano dedotto specificamente (cfr. capo VI lettera b) del ricorso introduttivo e degli atti di intervento) la violazione del Regolamento 953/2021 nella parte in cui imponeva agli stati membri il rispetto, nell’attuazione interna del green pass, delle norme di cui alla Carta di Nizza. Non veniva in rilievo solo il “Considerando 36” ma anche e soprattutto il “Considerando 62” sul quale non vi è nemmeno un cenno nell’ordinanza impugnata, dove il legislatore europeo indicava:

Il presente regolamento rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti, in particolare, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («Carta»), tra cui il diritto al rispetto della vita privata e della vita familiare, il diritto alla protezione dei dati di carattere personale, il diritto all’uguaglianza davanti alla legge e alla non discriminazione, la libertà di movimento e il diritto a un ricorso effettivo. Nell’attuazione del presenteregolamento gli Stati membri devono rispettare la Carta.”

Il Tribunale, in ogni caso, ha erroneamente ricostruito il testo del Regolamento 953/2021utilizzando una traduzione errata del “Considerando 36”. Il Tribunale, infatti, non si è avveduto del fatto che sulla Gazzetta Ufficiale dell’UE del 5.07.2021 (L 236/86) era stato pubblicato il seguente avviso di rettifica:

“Rettifica del regolamento (UE) 2021/953 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2021, su un quadro per il rilascio, la verifica e l’accettazione di certificati interoperabili di vaccinazione, di test e di guarigione in relazione alla COVID-19 (certificato COVID digitale dell’UE) per agevolare la libera circolazione delle persone durante la pandemia di COVID-19

(Gazzetta ufficiale dell’Unione europea L 211 del 15 giugno 2021)  Pagina 7, considerando 36, prima frase anziché:

«(36) È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti COVID-19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, operché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate.Pertanto …»,  leggasi:

«(36) È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti COVID-19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, operché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate o hanno scelto di nonessere vaccinate. Pertanto …».

Si tratta di un errore macroscopico e incomprensibile che vizia la decisione del Tribunale che, sulla base della traduzione errata del Regolamento aveva concluso che l’Unione Europea aveva vietato la discriminazione solo di coloro che non avessero avuto l’opportunità di vaccinarsi. In realtà il divieto di discriminazione era esteso anche a coloro che non avevano voluto vaccinarsi per proprie convinzioni personali che escludono la possibilità di ogni discriminazione ed era rafforzato dalle disposizioni del “Considerando 62” alle quali il Tribunale non ha dedicato nemmeno un cenno.

  1. Violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnataLa violazione di legge riguarda il Regolamento 953/2021. Questo, come riferito, obbligava gli stati membri a rispettare la Carta di Nizza nell’attuazione del certificato verde Covid-19. L’errore di fatto commesso dal Tribunale è dirimente perché l’ordinanza impugnata dava per scontato che il “Considerando 36” consentisse implicitamente la discriminazione di chi avesse scelto di non vaccinarsi e limitasse la protezione solo a coloro che non avessero ancora avuto l’opportunità di farlo.

In realtà il legislatore europeo aveva ben presente la possibilità di abusi da parte degli stati e, oltre ad imporre espressamente il rispetto della CDFUE si preoccupava al

“Considerando 36” di chiarire ulteriormente che la discriminazione diretta o indiretta delle persone sfornite di green pass (costituente la prova della vaccinazione e/o del tampone PCR negativo) era da ritenersi vietata anche per le persone che avevano scelto di non vaccinarsi. In altri termini, il Regolamento 953/2021 protegge quello che la CEDU ha definito “diritto di obiezione di coscienza” alla vaccinazione. Chi non desidera sottoporsi al vaccino perché non è convinto di un simile intervento sanitario ha diritto di non essere discriminato. 

Sul punto occorre citare anche la risoluzione 2361/2021 del Consiglio d’Europa (all. 19) che, pur nell’ambito di una dichiarazione molto favorevole alla pratica vaccinale sottolineava al punto 7.3.2. la necessità di “assicurare che nessuno sia discriminato per non essere stato vaccinato a causa di possibili rischi per la salute o perché non vuole essere vaccinato”. Infatti, non è qui in discussione la validità tecnico-scientifica dei vaccini e nemmeno la scelta politica di spingere per la vaccinazione. Si tratta del necessario rispetto del diritto di ciascuno di decidere del proprio corpo senza subire costrizioni fisiche, economiche o morali, come quelle poste in essere attraverso la normativa sul green pass.

  1. Violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 11, 32, 33, 34, 35, 36, 117 cost. dirittoall’autodeterminazione sanitaria, al lavoro, allo studio e alla non discriminazione,violazione degli artt. 61, 62 e 191-201 c.p.c. 2699-2708 c.c. – inammissibilità delrinvio alle sentenze nn. 14 e 15 della Corte costituzionale – violazione dell’art. 112p.c.

3.1.Capo della decisione di primo grado che viene impugnato

Si impugna il seguente capo dell’ordinanza alle pagg. 197 e ss.

“Le questioni poste dai ricorrenti e dagli intervenuti, ad avviso del Tribunale, possono ritenersi risolte dalle intervenute sentenze della Corte costituzionale nn. 14 e 15/2023. 

In particolare, con la sentenza n. 14 la Corte ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Sicilia dell’art. 4, commi 1 e 3, del D.L. n. 44/2021, nella parte in cui era previsto, da un lato, l’obbligo vaccinale per il personale sanitario e, dall’altro lato, per effetto dell’inadempimento dello stesso, la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie. Con la sentenza n. 15 la Corte ha rigettato le questioni di legittimità sollevate da diverse ordinanze di Tribunali in funzione di giudice del lavoro (Brescia, Catania, Padova), relativamente alle disposizioni che prevedevano l’0bbligo vaccinale per tutto il personale operante nelle strutture sanitarie e sociosanitarie, rispetto al quale la sospensione (conseguente all’inadempimento del predetto obbligo) era applicata dal datore di lavoro. 

Le motivazioni della Corte, se pure riferite al contesto lavorativo sopra descritto, assumono rilevanza, ad avviso del Giudicante, anche nella fattispecie oggetto di esame, in quanto idonee a far ritenere insussistente il presupposto della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale delle norme sull’obbligo vaccinale, anche in relazione alle conseguenze connesse all’inadempimento di tale obbligo (così come dedotto dai ricorrenti ed intervenuti). 

In particolare, nella sentenza n. 14 si ribadisce che “l’art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto negativo di non assoggettabilità a trattamenti sanitari non richiesti o non accettati) con il coesistente diritto degli altri e quindi con l’interesse della collettività (sentenza n. 5 del 2018, n. 258 del 1994 e 307 del 1990)” e si afferma che l’imposizione di un trattamento sanitario obbligatorio trova giustificazione in quel principio di solidarietà che rappresenta “la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente” (sentenza n. 75 del 1992). In sostanza la Corte ha ritenuto che spetta al legislatore bilanciare il diritto del singolo con l’interesse della collettività, precisando che tale contemperamento, nel caso di obbligo vaccinale anti Covid, è stato effettuato correttamente, atteso che il legislatore si è basato su dati forniti dalle autorità istituzionali di settore, non potendo affidarsi ad “esperti” (“non è dato vedere con quali criteri scelti”).

Dopo aver verificato la coerenza con il dato medico-scientifico (attestante la piena efficacia del vaccino), la Corte ha poi affermato che la conseguenza prevista nel caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale rappresentata, nel caso scrutinato dalla Corte, dalla sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie) “non riveste natura sanzionatoria”, ma una mera conseguenza “strettamente funzionale rispetto alla finalità perseguita di riduzione della circolazione del virus”. 

Nella sentenza n. 15 la Corte, poi, tra le altre cose, ha ribadito il giudizio di non sproporzione dell’obbligo vaccinale, evidenziandone la temporaneità e gli scopi pubblici cui esso era funzionale, rilevando che tale obbligo è stato costantemente adeguato alla situazione sanitaria in divenire.

Alla luce delle indicazioni fornite dalle sentenza sopra richiamate, ritiene il Tribunale che non sia ravvisabile, nel caso in esame, alcuna violazione da parte delle disposizioni contenute nei decreti-legge 44/2021 e 52/2021, dei diritti inviolabili dei ricorrenti e degli intervenuti, né del proprio diritto ad autodeterminarsi, trattandosi di scelte del legislatore adottate in un periodo pandemico, non irragionevoli né sproporzionate e tali quindi da non comportare la denunciata discriminazione, in presenza di un interesse sanitario collettivo non altrimenti tutelabile.  La giurisprudenza della Corte Costituzionale, in materia di vaccinazioni, era del resto già consolidata nell’affermare che l’art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività (cfr. Corte cost. n. 5 del 2018, n. 268 del 2017), riconoscendo in materia la discrezionalità del legislatore che può esercitarsi tenuto conto delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche accertate dalle autorità sanitarie preposte e in virtù delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca ,rdica (cfr. Corte Cost. sent. 268/2017). In sostanza il diritto all’autodeterminazione di cui le parti ricorrenti e intervenute chiedono tutela, può subire una limitazione (ai sensi dell’art. 32, comma 2 della Cost.) in caso di accertata incompatibilità con l’interesse collettivo (come affermato dalla stessa Corte Costituzionale che ha ritenuto l’obbligo vaccinale costituzionalmente legittimo, perché il sacrificio dell’autodeterminazione di ciascuno si giustifica proprio e solo in presenza di rischi per gli altri, cfr. Corte Cost. sent. N. 258 del 1994; n. 107 del 2012).”

3.2.Censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo gradoIl capo riportato si limita a semplici considerazioni di diritto senza svolgere alcuna considerazione di fatto se non il rinvio alle decisioni della Corte costituzionale nn. 14 e 15 del 2023 le cui motivazioni, sommariamente richiamate, sono state ritenute sufficienti a risolvere anche le questioni poste dagli attori, sebbene l’oggetto dei giudizi a quo fosse diverso, atteso che si trattava di controversie concernenti non il certificato verde Covid-19 bensì il vaccino obbligatorio.

In adesione alle sentenze indicate il Tribunale ha affermato, in buona sostanza, che i “vaccini” sperimentali contro il Covid-19 sono sicuri ed efficaci perché certificati in tale loro qualità da non meglio definite “autorità istituzionali di settore” e perché al giudice sarebbe inibito di porre in dubbio le verità diffuse da tali autorità istituzionali non essendovi un mezzo tecnico per smentirle.

Il fatto, per come illustrato dall’ordinanza impugnata, deve essere ricostruito diversamente. Anzitutto dando atto della circostanza che gli attori avevano esposto, suffragandola con ampia produzione documentale di fonti scientifiche, una ricostruzione delle vicende attinenti ai

“vaccini” contro il Covid-19 diametralmente opposta a quella sostenuta dalle sentenze della Consulta, ricostruzione finalizzata a dimostrare che si trattava nella specie di trattamenti ancora in fase di sperimentazione, di cui occorreva accertare la sicurezza e l’efficacia e che dalle relazioni sin qui depositate dalle autorità di farmacovigilanza (AIFA) emergeva l’esistenza di un numero consistente di affetti avversi, anche letali. In particolare, l’esame delle relazioni di farmacovigilanza di AIFA (cfr. doc. 35) – che pur dovrà riconoscersi come autorità di settore secondo la tesi esposta dal Tribunale – evidenzia come vi siano un numero consistente di decessi e di effetti avversi gravi di cui è stato già accertato il nesso di causalità con il vaccino contro il Covid-19. Anche di tale circostanza deve darsi atto nella ricostruzione del fatto processuale, specie in considerazione della mancata contestazione della relazione di AIFA da parte della Presidenza del Consiglio.

La tesi secondo cui il giudice non potrebbe accertare il fatto processuale in contrasto con le affermazioni degli esperti istituzionali va altresì corretta alla luce delle disposizioni codicistiche in tema di istruzione della causa che apprestano specifici strumenti dedicati proprio all’accertamento della verità materiale.

3.3.Violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata

L’errore in diritto dell’ordinanza impugnata può essere suddiviso in due ambiti.

Da un lato il Tribunale non si è avveduto della circostanza che i pareri degli “esperti di settore” non sono assistiti da alcuna fede privilegiata e che l’accertamento della verità tecnica avviene nell’ambito delle norme sulla consulenza tecnica d’ufficio.

Dall’altro, il rinvio alle decisioni della Consulta non dà atto delle diverse questioni di legittimità costituzionale sollevate dagli attori che il Tribunale, in sostanza, non ha deciso, nemmeno per dichiararle manifestamente infondate con la violazione dell’art. 112 c.p.c. e la conseguente riproposizione delle domande non decise dal Tribunale ai sensi dell’art. 346 c.p.c.

3.3.1.Violazione degli artt. 61, 62 e 191-201 c.p.c. 2699-2708 c.c.

I pareri degli esperti di settore (immaginiamo che il Tribunale si riferisse a quelli dell’AIFA, dell’ISS e dello stesso Ministero della Salute) non sono dotati di alcuna fede privilegiata, fermo restando che le relazioni di farmacovigilanza di AIFA confermano le tesi esposte dagli appellanti. Si tratta di semplici scritture private o, a tutto voler concedere, di atti pubblici, quando ne ricorrono i presupposti, la cui efficacia probatoria non è estesa alla verità materiale di quanto affermato nei documenti in questione dal punto di vista tecnico.

Il Tribunale ha, pertanto, violato le norme di cui agli artt. 2699-2708 c.c. che non riconoscono alcun parere di esperto dotato di rilevanza e affidabilità superiore. In particolare, non esistono pareri tecnici esterni al processo i cui risultati possano essere imposti alle parti senza contraddittorio e senza che la prova si formi all’interno del processo.

Ancor più evidente è la violazione di legge che si ravvisa nel passaggio dell’ordinanza in cui il Tribunale abdica totalmente ai propri doveri di ricerca della verità processuale affermando di non potersi affidare a degli esperti diversi da quelli governativi non sapendo nemmeno come sceglierli.

Premesso che il Giudice è tradizionalmente riconosciuto come peritus peritorum a dimostrazione del dovere del magistrato di trovare e accertare la verità, sembra che il Tribunale di Roma sia incorso in un grave equivoco circa le modalità necessarie per l’accertamento dei fatti processuali.

Gli attori hanno allegato alcune circostanze di fatto: a) i “vaccini” contro il Covid-19 sono sperimentali poiché non ne sono state ancora accertate la sicurezza e l’efficacia; b) i farmaci in questione sono caratterizzati da molti effetti avversi gravi e in talune occasioni anche letali.  A sostegno delle allegazioni di fatto gli attori hanno depositato documentazione proveniente dagli stessi “esperti di settore” individuati dal Tribunale (in particolare AIFA) e articoli scientifici.

Ora, il Tribunale avrebbe avuto l’onere di valutare la documentazione prodotta dal punto di vista dell’efficacia probatoria e, se avesse avuto dei dubbi, avrebbe potuto o dovuto disporre una consulenza tecnica d’ufficio. Le norme in materia di istruzione probatoria sono chiarissime sulle modalità di scelta degli esperti tecnici e sono contenute negli articoli 61, 62 e 191-201

c.p.c. sulla consulenza tecnica che, come noto, non è un mezzo di prova disponibile dalle parti giacché rientra nel dovere del magistrato di procedere d’ufficio all’accertamento della verità materiale avvalendosi, in caso di indagini tecniche di particolare difficoltà, dell’ausilio di un esperto della materia. D’altro canto, i vaccini rientrano in un ambito farmacologico ben noto e dubitiamo che il Tribunale avrebbe incontrato difficoltà a nominare un perito o un collegio di periti con le necessarie competenze scientifiche. Ciò che era impossibile alla luce delle regole in materia di accertamento del fatto, era commettere fideisticamente l’accertamento della questione controversa agli esperti istituzionali di settore.

Varrà sottolineare che AIFA, ISS e CTS sono tutte amministrazioni di nomina politica che hanno partecipato attivamente e fattivamente nella realizzazione delle scelte di politica sanitaria del governo cha ha approvato i decreti-legge 44/2021 e 52/2021. Ciò è legittimo, ma non consente di interpretare le affermazioni dei predetti esperti come se fossero enunciazioni scientifiche imparziali. Il governo aveva l’interesse politico a far sì che quante più persone si sottoponessero alla vaccinazione contro il Covid-19 e i pareri degli esperti erano finalizzati alla realizzazione di un simile scopo politico. Non possono avere alcuna rilevanza probatoria in un giudizio.

Varrà osservare come l’accertamento del fatto sia appannaggio esclusivo del giudice di merito e come debba necessariamente seguire le regole logiche, scientifiche e di comune esperienza che nemmeno fanno parte delle norme di diritto propriamente detto. Tant’è che il giudizio di fatto è censurabile in cassazione solo entro limiti molto ristretti e, segnatamente, allorché la motivazione a sostegno della ricostruzione del fatto sia mancante o tanto carente da non consentire il riconoscimento del percorso logico-giuridico compiuto dal giudice del grado precedente. Il giudice non può, quindi, in nessuna circostanza sottrarsi alla necessità di accertare le quaestiones facti correttamente allegate e dimostrate dalle parti nei limiti dei poteri che esse hanno. La nomina dell’esperto, la formulazione dei quesiti e l’utilizzazione della sua consulenza nelle materie che richiedano particolari conoscenze scientifiche è esclusiva competenze del giudice che non può certamente affermare di non sapere come scegliere un tecnico e tantomeno trincerarsi dietro a dei pareri di parte cui viene attribuita una efficacia probatoria particolare.

3.3.2. Violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 11, 32, 33, 34, 35, 36, 117 cost. diritto all’autodeterminazione sanitaria, al lavoro, allo studio e alla non discriminazione – violazione dell’art. 112 c.p.c.

Mediante il rinvio alle sentenze 14 e 15/2023 della Consulta il Tribunale ha ritenuto di poter chiudere il discorso concernente le molteplici violazioni costituzionali compiute dal governo con l’approvazione del “green pass”. Tuttavia, le sentenze riguardavano altro e la motivazione delle stesse, sommariamente richiamata dal Tribunale, non risponde alle domande fatte valere dagli attori sulla quale vi è omissione di pronuncia in violazione dell’art. 112 c.p.c. Anche in questo caso non è possibile ritenere nemmeno la sussistenza di un rigetto implicito delle domande considerata la totale diversità di quanto esposto nel ricorso introduttivo nel presente giudizio e gli argomenti trattati e risolti dalla Consulta con le ben note sentenze. All’omissione di pronuncia deve conseguire la riforma dell’ordinanza impugnata e la decisione delle questioni da parte della Corte d’Appello adita alla quale le riproponiamo.

  1. Riproposizione ex art. 346 c.p.c. delle domande ed eccezioni non accolte dall’ordinanza impugnata
    • I diritti fondamentali inviolabili

Gli ricorrenti sono titolari dei diritti soggettivi costituzionalmente garantiti: il diritto di eguaglianza (diritto a non essere discriminati), il diritto di libertà personale (autodeterminazione sanitaria), il diritto al lavoro e il diritto allo studio. Si tratta di diritti fondamentali inviolabili ai sensi dell’art. 2 cost., ossia di diritti che la Repubblica Italiana “riconosce” in omaggio alla tradizione illuministica che vuole i diritti fondamentali dati da Dio o derivanti dall’appartenenza al genere umano (cfr. Corte cost. sent. 122/1970: «… nel titolo primo della prima parte della Costituzione vengono affermati, garantiti e tutelati alcuni fondamentali diritti di libertà – in gran parte compresi nella categoria dei diritti inviolabili dell’uomo genericamente contemplati nell’art. 2 –, che al singolo sono riconosciuti e che il singolo deve poter far valere “erga omnes”.») I diritti fondamentali sono dunque azionabili nei confronti di chiunque li violi senza che la natura pubblica del soggetto responsabile della violazione possa limitare o ridurre tale diritto di azione.

Il diritto fondamentale al quale sono riconducibili anche il diritto al lavoro e il principio di uguaglianza è il diritto alla libertà personale che racchiude e compendia in sé numerosi consimili diritti che ne sono una manifestazione, come il diritto alla libera manifestazione del pensiero, la libertà religiosa e simili. La libertà personale è stata definita da C. cost. n. 180/2018

“un valore unitario e indivisibile, che non può subire deroghe o eccezioni.”

  • La presunta, ed in realtà inesistente, superiorità del diritto alla salute

Alle libertà fondamentali è stato sovente opposto il diritto alla salute. Si è ritenuto che, specie in situazioni di emergenza come nel corso di una pandemia, il diritto alla libertà personale, il diritto al lavoro, il diritto allo studio e il diritto alla non discriminazione dovrebbero cedere al diritto alla salute inteso come diritto alla salvezza da tutte o alcune malattie. Si tratta di una tesi errata. Il diritto alla salute quale diritto fondamentale è il diritto all’accesso alle cure mediche, non il diritto ad essere sani e tantomeno il diritto ad essere protetti da alcuni o tutti gli agenti patogeni. Il diritto all’accesso a determinate cure non può comportare la cancellazione dei diritti fondamentali inviolabili per coloro che non vogliano fare uso di esse. Pertanto, il diritto alla salute non appare, nemmeno in astratto, suscettibile di bilanciamento con i diritti alla non discriminazione, alla libertà personale, al lavoro e allo studio. In ogni caso in merito al bilanciamento tra diritti fondamentali, secondo C. Cost. n. 85/2013 non è ammissibile l’illimitata espansione di uno solo dei diritti che diverrebbe tiranno nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette.

In altri termini, se il legislatore, nei ristretti limiti in cui l’inviolabilità dei diritti fondamentali glielo consente, è chiamato a risolvere un possibile conflitto tra di essi, ciò deve avvenire mediante un bilanciamento, ossia tramite una soluzione razionale che faccia salva la sostanza di tutti i diritti fondamentali in conflitto senza annullarne uno a beneficio di un altro che altrimenti diverrebbe un diritto “tiranno” secondo l’efficace espressione della Consulta.  La salute collettiva è un “interesse della collettività” in quanto opposto al “diritto dell’individuo” a ricevere cure mediche. L’uso dei termini diritto e interesse evidenzia come il secondo debba cedere al primo.

  • La “giustiziabilità” dei diritti fondamentali

La “giustiziabilità” dei diritti fondamentali è principio pacifico in giurisprudenza. In particolare, in particolare, Cass. civ., Sez. Unite, Ord., 24/11/2021, n. 36373 ha ritenuto ammissibile una domanda in tutto e per tutto assimilabile al presente in cui gli attori agivano per ottenere il risarcimento del danno derivante dall’attività legislativa illegale del governo e del parlamento. La Corte sottolineò che il diritto al risarcimento del danno per illegittimo discriminatorio esercizio della potestà legislativa in contrasto con principi eurounionali e lesivo dei diritti fondamentali costituzionali è fondato sul principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c., appartiene alla giurisdizione dell’AGO, trattandosi di diritti soggettivi, e non può essere escluso dalla natura politica dell’atto legislativo giacché non vi è invasione di una funzione sovrana dello stato.

  • Il diritto a non essere discriminati
    • Il principio costituzionale di eguaglianza

Il primo dei diritti di cui si chiede l’accertamento nei confronti di parte convenuta è il diritto di eguaglianza consacrato dall’art. 3 della costituzione che vieta il trattamento diseguale fondato su diverse condizioni personali e sociali. La costituzione vieta, dunque, la discriminazione, qualunque ne sia il motivo. Il fatto di avere subito o meno un determinato trattamento sanitario o diagnostico-sanitario o di essere guariti dalla malattia Covid-19 costituisce evidentemente una “condizione personale” che ai sensi dell’art. 3 impedisce che colui che vi si trovi subisca un trattamento discriminatorio.

Coloro che, appartenenti a determinate, ampie categorie, erano privi del certificato verde Covid19 erano esclusi da una serie di attività ivi compresi il lavoro e lo studio. I cittadini sono quindi divisi in categorie ed hanno un godimento differenziato dei diritti a seconda che abbiano o no determinate condizioni mediche con la conseguente costruzione di un ordinamento fondato non sull’uguaglianza ma sulla discriminazione.

  • Il divieto di discriminazione nel diritto internazionale – incostituzionalità ex artt. 10, 11 e 117 cost. delle norme contrastanti

Il diritto all’eguaglianza e a non essere discriminati è parte integrante del diritto internazionale pattizio e generalmente riconosciuto. Dette fonti hanno, pertanto, diretta applicabilità nel territorio della Repubblica Italiana in forza degli artt. 10, 11 e 117 cost. e l’eventuale contrasto del diritto interno con codeste fonti internazionali la sua l’incostituzionalità.

L’uguaglianza è consacrata dagli articoli 2 e 7 della Dichiarazione Universale dei Diritti

Umani dell’ONU del 1948, e dall’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU, ratificata con legge n. 848 del 4 agosto 1955 e, in seguito all’approvazione del Trattato di Lisbona, parte del diritto dell’Unione Europea in forza dell’art. 6 del Trattato dell’Unione Europea). La Corte costituzionale con le “sentenze gemelle” nn. 348 e 349/2007 ritenne la violazione della CEDU costituzionalmente rilevante ai sensi dell’art. 117 cost. che impone al legislatore nazionale e regionale il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Identico divieto di discriminazione è contenuto nell’art. 2 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali e nell’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottati il 16 e il 19 dicembre 1966 ed entrambi ratificati con legge n. 881 del 25 ottobre 1977.

4.5. Il diritto all’autodeterminazione sanitaria come esplicazione della libertà personale

4.5.1. Il diritto alla libertà personale secondo la costituzione repubblicana

Il secondo diritto fondamentale che è stato violato dall’azione del governo e del parlamento è quello alla libertà personale di cui all’art. 13 cost., definito da Corte cost. 23 marzo 1960 n. 12 come diritto ad esercitare “l’autonomia e la disponibilità della propria persona” e da Corte cost. 27 luglio 2018 n. 180 quale “valore unitario e indivisibile, che non può subire derogheo eccezioni”(cfr. Corte cost. 27 marzo 1962 n. 30, Corte cost. 16 luglio 1970 n. 144, Corte cost. 5 febbraio 1975 n. 20, Corte cost. 5 febbraio 1975 n. 23, Corte cost. 25 giugno 1980 n. 99,

Corte cost. 20 giugno 2008 n. 219, Corte cost. 13.03.2014 n. 45, Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna 1984, 111 ss.). Secondo Corte cost. 22 ottobre 1990 n. 410, “Il valore costituzionale della inviolabilità della persona è costruito, nel precetto di cui all’art. 13, primo comma, della Costituzione, come “libertà”, nella quale è postulata la sfera diesplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo.”  Costituiscono, infatti, violazioni del diritto di libertà personale tutte le forme di “degradazione giuridica” coincidenti con una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona, tale dapoter essere equiparata a quell’assoggettamento all’altrui potere in cui si concreta la violazione dell’”habeas corpus” (Corte cost. 7 dicembre 1994 n. 419).

In applicazione di tali principi la Consulta (Corte cost. 9 luglio 1996, n. 238) dichiarò illegittimo il secondo comma dell’art. 224 c.p.p., con una pronuncia invocata in riferimento ai prelievi ematici, ma di fatto estesa a tutte le misure incidenti sulla libertà personale, constatando la violazione dell’art. 13 cost, secondo comma, «il quale assoggetta ogni restrizione della libertà personale (…) ad una duplice garanzia: la riserva di legge (…) e la riserva di giurisdizione

(…); e appronta, così, una tutela centrale nel disegno costituzionale, avendo ad oggetto undiritto inviolabile, quello della libertà personale, rientrante tra i valori supremi, qualeindefettibile nucleo essenziale dell’individuo, non diversamente dal contiguo e strettamenteconnesso diritto alla vita e all’integrità fisica, con il quale concorre a costituire la matriceprima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto della persona …».

Misure anche blande di limitazione della libertà personale, come l’obbligo di presentazione presso un ufficio di polizia sono state ritenute soggette alla duplice riserva di legge e di giurisdizione di cui all’art. 13 cost. (v. Corte cost. 20 dicembre 2019 n. 280). Le uniche limitazioni della libertà personale ritenute ammissibili dalla Consulta senza le guarentigie approntate dall’art. 13 cost. sono quelle definite come “trascurabili” opponendole alle limitazioni “fisicamente apprezzabili e durature” (cfr. Corte cost. 18 febbraio 2009 n. 49).

L’obbligo di sottoporsi al tampone PCR o alla vaccinazione contro il Covid-19 non è trascurabile giacché vi è un’invasione dell’integrità personale mediante l’introduzione dioggetti o sostanze estranee all’interno del corpo. Inoltre, mentre il tampone PCR ha durata breve, il che non ne elimina l’invasività, il vaccino, di contro, determina una modificazionepermanente ed irreversibile del corpo umano mediante la riprogrammazione del sistema immunitario attraverso l’introduzione nel corpo del paziente di molecole estranee (mRNA o DNA a seconda del tipo di vaccini) in grado di operare una modificazione del corpo la cui invisibilità ad occhio nudo, poiché avviene a livello microbiologico, non è meno evidente stando alle stesse dichiarazioni delle case farmaceutiche produttrici e delle autorità regolatrici come l’AIFA. I vaccini operano, infatti, una modificazione permanente della conformazione molecolare del corpo degli inoculati che comporta un’invasione irreversibile nell’integrità corporale di ciascuno degli inoculati.

4.5.2. Violazione del principio di proporzionalità

La coartazione della volontà dei cittadini avviene senza il rispetto del principio di proporzionalità (sul quale si veda CEDU, Grand Chamber, GIEM e altri c. Italia, 28 giugno 2018) giacché la sanzione imposta a coloro che siano renitenti all’obbligo di munirsi del certificato verde Covid-19 (e quindi a subire un trattamento medico o diagnostico forzoso) è gravissima (il divieto di studiare e di lavorare senza la previsione di alcun sostegno, nemmeno di tipo meramente alimentare) ed imposta senza garanzie procedimentali.

Il principio di proporzionalità, direttamente legato al canone di razionalità delle leggi, oltre ad essere l’oggetto di una vasta elaborazione giurisprudenziale, è espressamente riconosciuto dall’art. 52 CDFUE. Per rispettarlo il legislatore dovrebbe dimostrare che l’invasione nella libertà personale (obbligo di subire un trattamento sanitario o medico-diagnostico) e la limitazione utilizzata quale sanzione (divieto di studiare e di lavorare) sia necessaria (ossia costituisca un sine qua non) e sia funzionale alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.  La verifica del rispetto del principio di proporzionalità ha una struttura trifasica ed implica l’adozione di un metodo argomentativo teso a verificare la correttezza dell’assetto raggiunto all’esito della composizione di un conflitto tra valori o interessi contrapposti (v. Alexy, in Sieckmann, Proportionality, Balancing and Rights, Erlangen 2021, 2 ss.). Gli interessi in opposizione tra loro sono da un lato il diritto alla libertà personale e all’autodeterminazione sanitaria e, dall’altro, quello pubblico ad evitare o limitare la diffusione del virus SARS-CoV-

La prima fase della verifica di proporzionalità è tesa all’accertamento dell’idoneità dei mezzi adoperati per il raggiungimento del fine che si intende realizzare; la seconda fase, invece, è finalizzata a valutare la necessità della misura, vale a dire che il mezzo adoperato sia, tra tutti quelli idonei e a disposizione, quello implicante il minor sacrificio possibile degli eventuali interessi contrapposti; la terza e ultima fase, detta della “proporzionalità in senso stretto” o adeguatezza, attiene al bilanciamento operato tra gli interessi in conflitto e si svolge per il tramite di un confronto tra i benefici raggiunti tramite l’adozione della misura e i costi della stessa, in termini di necessaria compressione di uno o più diritti.

Lo scopo perseguito dal governo è di contenere la diffusione del virus SARS-Cov-2. Rispetto a tale scopo la misura adottata è inidonea. Si producono a tale proposito due grafici (doc. 53) concernenti la crescita del numero dei contagiati nel nostro paese. In concomitanza con l’adozione dell’obbligo di munirsi del certificato verde Covid-19 nei luoghi di lavoro e di studio la crescita giornaliera e assoluta dei soggetti contagiati ha avuto una brusca impennata a dimostrazione empirica dell’inidoneità dell’obbligo a raggiungere lo scopo perseguito. Pertanto, a fronte dell’adozione di una misura evidentemente inidonea, appare chiaro che il sacrificio o la limitazione di altri diritti (libertà personale, lavoro e non discriminazione) è priva di ogni valida giustificazione. Pertanto, l’abbandono del certificato verde Covid-19, mentre non nuoce all’intento di limitare o impedire la diffusione del contagio da SARS-CoV-2, giova ai diritti fondamentali lesi dall’introduzione del c.d. “green pass”.  L’obbligo di munirsi del certificato non appare nemmeno necessaria. Se lo scopo fosse quello di indurre quante più persone a sottoporsi al test oppure a scegliere l’inoculazione del vaccino, la limitazione della possibile prova della condizione di vaccinato o negativo ad un solo documento, il certificato verde Covid-19, gestito a livello centralizzato dallo stato, è controproducente in quanto determina inevitabilmente una limitazione dell’accesso ai mezzi ritenuti utili. Se mai, il legislatore avrebbe dovuto favorire l’utilizzazione di ogni possibile certificato attestante le condizioni ritenute necessarie a dimostrare la “non pericolosità” di chi debba accedere ai luoghi di lavoro, senza costruire un sistema centralizzato, costoso e tale da impedire anziché favorire la diffusione dei vaccini e delle prove PCR. Il c.d. “green pass” non è funzionale allo scopo perseguito che avrebbe suggerito misure esattamente opposte all’imposizione di un documento unico gestito dall’amministrazione centrale dello stato. In considerazione, poi, della prova empirica del fatto che l’introduzione del certificato verde Covid-19 non ha nemmeno rallentato la crescita dei contagi, appare evidente come il “green pass” sia nella migliore delle ipotesi irrilevante (l’aumento dei contagi potrebbe essere determinato dal normale incremento delle influenze nella stagione fredda) o addirittura controproducente, come emerge dalla comparazione tra la situazione della Repubblica Italiana e quella di altri paesi che, non avendo adottato le misure prescelte dal governo italiano, hanno una situazione epidemiologica migliore. Peraltro, il legislatore ha a sua disposizione uno strumentario di misure alternative al certificato verde Covid-19 quali le mascherine, l’igiene delle mani, il distanziamento personale, la riduzione del numero di persone in luoghi chiusi, la preferenza per il lavoro a distanza ed altri consimili provvedimenti che hanno dato buona prova di sé senza essere così invasivi nel diritto di libertà personale come l’obbligo di assoggettarsi al tampone PCR oppure al vaccino. Pertanto, il certificato verde Covid-19 non rispetta nemmeno il canone del minor sacrificio possibile degli eventuali interessi contrapposti. Infatti, avendo a disposizione strumenti alternativi per il raggiungimento dello scopo di limitare o impedire la diffusione del contagio, il legislatore, al fine della valida adozione di un provvedimento invasivo del diritto fondamentale della libertà personale, dovrebbe dimostrare che il mezzo adottato è l’unico idoneo, cioè che il possesso del certificato verde Covid-19 è l’unico mezzo efficace essendo inutili gli altri strumenti esistenti.

Il certificato verde Covid-19, inidoneo, e non necessario rispetto allo scopo perseguito, non regge nemmeno al giudizio di proporzionalità stretta perché il sacrificio richiesto al diritto di libertà personale non è giustificato dal raggiungimento degli scopi perseguiti dal legislatore. La tecnica adottata è quella di punire con la perdita del diritto allo studio e al lavoro chi si opponga alla lesione del diritto alla libertà personale (autodeterminazione sanitaria) implicito nell’obbligo alternativo di sottoporsi al tampone PCR oppure al vaccino. Gli interessi in gioco sono l’interesse di sanità pubblica ad impedire o rallentare la diffusione del virus e i diritti fondamentali allo studio, al lavoro e alla libertà personale. A tutela della salute pubblica il legislatore ha deciso di comprimere il diritto alla libertà personale sanzionando i renitenti con la perdita dei diritti allo studio e al lavoro ed assoggettandoli ad una pubblica discriminazione. Un simile operato appare come eccessivo e sproporzionato rispetto agli scopi in realtà nemmeno raggiunti con l’introduzione del certificato verde Covid-19.

La salute pubblica ed i diritti fondamentali individuali allo studio, al lavoro ed alla libertà personale non possono, infatti, essere messi sullo stesso piano. Mentre la libertà personale ha lo statuto di salvaguardia della dignità della persona e costituisce la base e la fonte di tutti i diritti fondamentali riconosciuti dalla costituzione e dalle convenzioni internazionali, mentre il lavoro è il diritto sul quale è fondata l’intera repubblica ed è il mezzo per garantire a tutti un’esistenza libera e dignitosa, a questi diritti fondanti si contrappone un mero interesse, cioè il fine pubblico di garantire la salute pubblica. Peraltro, l’art. 32 cost. nel prevedere la possibilità che la legge imponga un trattamento sanitario obbligatorio, ne delinea tuttavia i limiti coincidenti con il rispetto della persona umana. Pertanto, un obbligo vaccinale può essere conforme al limite costituzionale purché non incida con il diritto di libertà personale e trovi una sanzione blanda e non incidente sulle condizioni esistenziali della vita.

4.5.3. L’autodeterminazione sanitaria nel diritto internazionale

Il diritto all’autodeterminazione sanitaria è consolidato in una serie di testi appartenenti sia al diritto internazionale consuetudinario generalmente riconosciuto sia ad una serie di fonti pattizie del diritto internazionale particolare.

Anzitutto vi è la violazione concerne le norme del diritto internazionale generalmentericonosciute, “costituzionalizzate” attraverso il richiamo di cui all’art. 10 cost.   Il Codice di Norimberga

Del diritto internazionale generalmente riconosciuto fa parte, anzitutto, il cosiddetto “Codice di

Norimberga” elaborato all’esito dei processi ai medici nazionalsocialisti. Il Codice esige sempre e comunque il consenso della persona interessata ad un trattamento sanitario, consenso che deve essere informato e libero da qualsiasi elemento di forza, frode, inganno e costrizione.

Dichiarazione di Helsinki

Altrettanto chiari sono i principi che emergono dalla Dichiarazione di Helsinki sviluppata dall’Associazione Medica Mondiale allo scopo di fissare in un documento internazionale universalmente riconosciuto i principi ispiratori della sperimentazione medica. La Dichiarazione fa parte del diritto internazionale generalmente riconosciuto: l’obbligo dell’Italia di adeguarsi alla Dichiarazione di Helsinki della World Medical Association del giugno del 1964 in occasione della 18ª Assemblea medica mondiale svoltasi a Helsinki emerge nella legislazione ordinaria. In particolare, l’art. 1, comma 2, della legge 11 gennaio 2018 n. 3, nel delegare il governo a provvedere al riordino della legislazione in materia di sperimentazione medica, impone di farlo nel rispetto della predetta Dichiarazione, menzionata anche dal decreto ministeriale del 15 luglio 1997. La Dichiarazione di Helsinki è citata ripetutamente dalle fonti del diritto interno quale parametro delle buone pratiche cliniche (v. d.lgs. 14 dicembre 1992 n. 507, all. 7, d.lgs. 24 febbraio 1997 n. 46, all. X, decreto ministeriale 18.03.1998 e decreto ministeriale 24 settembre 2004) e fa quindi parte integrante e sostanziale del nostro ordinamento.

Anche le regole della Dichiarazione di Helsinki esigono il rispetto del diritto all’autodeterminazione.

Dichiarazione Universale sulla bioetica e i diritti umani approvata dall’UNESCO il19.10.2005

Stessi principi emergono dalla Dichiarazione Universale sulla bioetica e i diritti umani (cfr. Garante per la protezione dei dati personali, delibera 24 giugno 2011 n. 258) che riafferma il principio del consenso libero e informato della persona interessata al trattamento sanitario (art.

6) e ciò con riferimento a qualsiasi trattamento sanitario, non solo a quelli sperimentali.

4.5.4. Il contrasto con il diritto internazionale particolare

L’obbligo di vaccinazione contrasta con varie norme del diritto internazionale pattizio che deve essere rispettato in forza degli artt. 10, 11 e 117 cost.

Il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (legge 25 ottobre 1977 n. 881)

L’art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici concluso a New York il 16 dicembre 1966 ed entrato in vigore il 23 marzo 1976 vieta la sottoposizione senza il libero consenso ad un esperimento medico o scientifico.  La Convenzione di Oviedo (legge 28 marzo 2001 n. 145)

La Convenzione di Oviedo sulla quale si rinvia a quanto esposto sopra, vincola la Repubblica Italiana non solo in quanto parte del diritto eurounitario ma anche come norma del diritto internazionale pattizio.  5. Il diritto al lavoro

Le norme che vietano ai soggetti che non siano muniti di certificato verde Covid-19 di svolgere la loro attività lavorativa, dipendente o autonoma, costituiscono, infine, la violazione del diritto al lavoro consacrato sia nella nostra costituzione sia in una serie di documenti internazionali.

Il diritto al lavoro nella costituzione

Il diritto al lavoro (artt. 1, 4, 35 e 36 cost.) è il principio sul quale si regga l’intero impianto della repubblica, onde l’impossibilità di un bilanciamento con altri diritti. Inoltre, il lavoro, in quanto mezzo per poter avere un’esistenza libera e dignitosa incide direttamente sul rispetto della persona umana, indicato come limite dall’art. 32 per qualsiasi intervento forzoso nella sfera sanitaria. Ne discende il divieto assoluto di qualsiasi limitazione al diritto di lavorare.

In particolare, dall’art. 4 cost. è ricavabile “una situazione giuridica perfetta, consistente nella libertà di lavorare, vale a dire nella pretesa a ché i pubblici poteri si astengano da qualsiasi intervento rivolto ad impedire l’attività di lavoro dei privati, la scelta ed il modo di esercizio di una professione, attività, mestiere (Corte cost., giur. Costante; cfr. comunque sentt. 45/1965;

102/1968; 94/1976; (…). (Crisafulli-Paladin, Commentario Breve alla Costituzione, Padova 1990, 39 sub art. 4, X).

L’interferenza nel diritto in questione costituisce dunque un’attività illecita ed illegittima del potere legislativo che con i provvedimenti in materia di obbligo di vaccino e di obbligo di certificato verde Covid-19 ha ecceduto dai limiti di quanto è possibile, sia pure nella più ampia discrezionalità politica riconosciuta al legislatore.

Il diritto al lavoro nell’ordinamento dell’Unione Europea

Il diritto al lavoro è consacrato altresì nell’ordinamento eurounitario. In particolare, occorre citare anzitutto l’art. 151 TFUE che fa espresso rinvio alla Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961, con le successive modifiche e integrazioni, ed alla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori. Anche per quanto concerne il diritto al lavoro, pertanto, la legislazione interna incide sulla realizzazione di principi legali eurounitari stabiliti dal Trattato con la conseguenza della applicazione diretta nel nostro ordinamento sia del TFUE stesso, sia delle citate Carte sociali, sia, infine, della CDFUE laddove ribadisce e rafforza il principio generale del diritto al lavoro.

L’art. 4 collega il diritto di tutti i lavoratori ad una retribuzione equa alla necessità di garantire a tutti un livello di vita dignitoso. E, correttamente, il c.d. “diritto alla salute” qui declinato come diritto all’assistenza medica prevede l’obbligo degli stati non di garantire la salute, il che è evidentemente impossibile, ma ad apprestare per tutti, anche i non abbienti, le cure mediche necessarie. Di particolare rilievo, poi, è l’art. E) della Parte V che consacra l’obbligo di riconoscere il godimento dei diritti previsti dalla Carta senza alcun tipo di discriminazione.  Identici principi sono ribaditi dalla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori (art. 4).

Identica la ratio delle disposizioni in materia di lavoro dettate dagli artt. 15 e 16 CDFUE.

Il diritto al lavoro nell’ordinamento internazionale

Gli stessi principi accolti dalle menzionate Carte europee sono riconosciuti dal Pattointernazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali fatto a New York il 16dicembre 1966 e ratificato con legge 881/1977 (art. 6, comma 1).

  1. L’interesse all’azione di accertamento

I diritti fondamentali azionati (libertà personale, studio, lavoro e uguaglianza) sono stati messi in dubbio dall’azione del governo. In particolare, si ritiene da parte delle autorità investite del potere di legiferare che detti diritti debbano cedere ed essere anche totalmente sacrificati a tutela di supposte esigenze di salute pubblica. Esigenze che si risolvono nell’interesse ad evitare l’ulteriore diffusione del virus SARS-CoV-2. Unico mezzo ritenuto idoneo dal governo al raggiungimento di un siffatto scopo è il certificato verde Covid-19. Il legislatore ha inteso introdurre una nuova gerarchia dei diritti fondamentali costituzionali ponendo al vertice il diritto delle pubbliche autorità a prevenire la diffusione del virus. Il legislatore ha tentato di volta in volta di raggiungere detta nuova finalità suprema dell’ordinamento con mezzi tecnici diversi ed eterogenei come la quarantena, il coprifuoco, la chiusura delle attività commerciali, la mascherina chirurgica, la mascherina FFP2, il tampone PCR, il vaccino e, da ultimo, il certificato verde Covid-19. Tutti gli altri diritti dei cittadini sono subordinati a detta finalità cui dovrebbero cedere, con conseguenze sanzionatorie sempre più gravi, sino a quelle estreme introdotte dai decreti-legge 44/2021 e 52/2021. Pertanto, è evidente che i diritti assoluti e inviolabili sono messi in dubbio dall’attività legislativa del governo che ritiene di poter anteporre a tali diritti l’esigenza suprema di evitare la diffusione del virus SARS-CoV-2.  Poiché, dunque, i diritti oggetto del presente giudizio sono messi direttamente e chiaramente in discussione dall’attività legislativa illegale e illegittima del governo e del parlamento, i ricorrenti hanno anzitutto un interesse alla prima delle domande, ossia all’accertamento dei diritti in questione, della loro natura di diritti fondamentali inviolabili ai sensi dell’art. 2 cost. e, pertanto, della loro prevalenza rispetto ad altri interessi pubblici che il legislatore può certamente perseguire purché, però, non giunga ad una totale eliminazione dei diritti stessi.

Sussiste il presupposto dell’azione di accertamento ossia lo stato di incertezza oggettiva sull’esatta portata dei diritti e degli obblighi derivanti da un rapporto giuridico, costituendo la rimozione della detta incidenza un risultato utile, giuridicamente rilevante e non conseguibile senza l’intervento del giudice. Il rapporto giuridico di cui qui si tratta è quello tra il titolare di diritti fondamentali inviolabili e il legislatore ed è caratterizzato dalla pretesa del titolare di non essere limitato o disturbato nel godimento dei diritti in questione dalle possibili interferenze del legislatore stesso. I diritti in questione sono tipicamente diritti assoluti ossia invocabili erga omnes. L’interesse ad agire nell’azione di accertamento ha il carattere dell’attualità ed un’oggettiva consistenza, se riguarda una posizione giuridica già sorta in capo all’interessato, di modo che dall’incertezza derivi un pregiudizio attuale e non meramente eventuale, non eliminabile senza l’intervento del giudice. L’incertezza deve essere oggettiva, nel senso che non può consistere in una situazione psicologica dell’attore, ma deve consistere in una impossibilità o difficoltà a ravvisare la regula agendi del caso di specie. L’incertezza deve essere, inoltre, attuale, nel senso che la domanda deve attenere ad un diritto o ad un obbligo già esistente, e non a venire o estinto.

L’accertamento richiesto costituisce il necessario presupposto logico-giuridico dell’azione ex art. 2043 c.c. qui esercitata giacché il primo elemento del giudizio concernente il canone fondamentale del neminem laedere è quello attinente all’ingiustizia del danno. La lesione dei diritti qui azionati potrà essere risarcita nella misura in cui detti diritti esistano e, soprattutto, non possano dirsi limitati o estinti dalla pretesa del legislatore di far prevalere ad essi l’interesse ad impedire o limitare la diffusione del virus SARS-CoV-2. In altri termini: non è qui in discussione il potere dello stato-persona attraverso la sua funzione legislativa di effettuare una scelta politica, ossia quella di assumere come sua funzione e suo scopo quello di limitare o impedire la diffusione del virus. La questione riguarda la sussistenza di limiti immanenti ad una simile azione politica. Detti limiti derivano dall’esistenza di diritti individuali fondamentali e inviolabili che costituiscono un ostacolo al perseguimento di pur legittimi scopi politici. Onde anzitutto l’interesse ad ottenere l’accertamento della sussistenza dei diritti di cui è causa.

  1. La violazione dei diritti fondamentali ad opera dell’attività legislativa e la sua rilevanza ex art. 2043 c.c. – prova, elemento soggettivo, nesso eziologico

Gli attori sono titolari di una serie di diritti fondamentali inviolabili (libertà personale, autodeterminazione sanitaria, studio, lavoro, uguaglianza). Il potere di intervento del legislatore deve rispettarne il contenuto essenziale non essendo possibile una loro limitazione tanto intensa da costituirne un sostanziale annullamento. L’inviolabilità dei diritti in questione comporta l’ingiustizia dell’attività legislativa, consistente nella loro negazione subordinandone l’esercizio ad altre finalità politiche del legislatore.

L’ingiustizia del danno ai diritti fondamentali rileva sotto tre punti di vista che comportano un concorso di possibili rimedi (Corte cost. sent. 20/2019). Anzitutto vi è il piano costituzionale: le norme dei decreti-legge 44/2021 e 52/2021 sono manifestamente incostituzionali alla luce dei parametri sopra indicati. La questione di costituzionalità è direttamente rilevante nel presente giudizio, poiché la declaratoria di incostituzionalità delle norme in questione comporterebbe il definitivo accertamento dell’ingiustizia del danno e, rimuovendo la copertura legislativa dell’aggressione ai diritti fondamentali degli attori, lascerebbe solo la lesione degli stessi confermando il diritto al risarcimento del danno reclamato dai ricorrenti. In secondo luogo, ma sempre sul piano dell’incostituzionalità delle norme, vi è la violazione dei principi e

trattati internazionali sopra analiticamente descritti che determinano l’ulteriore incostituzionalità delle norme in questione ai sensi degli artt. 10, 11 e 117 cost. Si badi, il rinvio alla Consulta non è l’oggetto del presente giudizio che, come si ribadisce, ha ad oggetto l’accertamento della sussistenza in capo agli attori di una serie di diritti fondamentali inviolabili, la lesione di questi ad opera dell’attività legislativa e il conseguente diritto degli attori al risarcimento del danno subito. Peraltro, anche in caso di mancato accertamento ad opera della Consulta dell’incostituzionalità delle norme richiamate, resterebbe l’antigiuridicità del comportamento del legislatore con la possibilità di chiedere un risarcimento da atto formalmente lecito ma illegittimo alla stregua di parametri, quelli costituzionali, superiori al piano della legislazione ordinaria. La terza direttrice dell’ingiustizia del danno è quella connessa alla illegalità delle norme in questione. Infatti, a prescindere dalla violazione della costituzione, il legislatore italiano ha posto delle norme incompatibili con il diritto eurounitario, diritto che, nella gerarchia delle fonti è sovraordinato a quello interno. Il legislatore, pertanto, non solo ha il dovere di non violare le norme dell’Unione ma, laddove abbia adottato delle disposizioni incompatibili con l’ordinamento eurounitario, ha il dovere di rimuoverle. Qui il giudice, come messo in evidenza da Corte cost. 20/2019 ha a disposizione la possibilità di una disapplicazione diretta delle norme interne incompatibili giacché il controllo sul rispetto del diritto dell’Unione è diffuso. Il che non impedisce al giudice nazionale, al fine di una rimozione con efficacia erga omnes delle norme in questione, di sollecitare comunque l’intervento della

Consulta (invocando i parametri degli artt. 10, 11 e 117 cost.) oppure, in caso di dubbio interpretativo sulla portata e l’efficacia delle norme europee, di rivolgersi ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è chiaramente espressa in favore della tesi secondo cui gli stati membri siano responsabili per le violazioni del diritto europeo e quindi tenuti a risarcire ai cittadini il danno cagionato dalla mancata osservanza dell’ordinamento europeo. Il principio fu affermato da due sentenze della CGCE, anzitutto CGCE C6/90 e C9/90 Francovich e Bonifaci. Nelle sentenze in questione la Corte affermò una serie di principi fondamentali.

Premesso che il Trattato CEE ha istituito un ordinamento giuridico proprio, integrato negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, la Corte ricordò che detto ordinamento si impone direttamente ai giudici. I soggetti dell’ordinamento – all’epoca comunitario, oggi eurounitario – sono non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini sicché il diritto comunitario èvolto a creare diritti che entrano direttamente a far parte del patrimonio giuridico deicittadini. E ciò vale sia per i diritti espressamente menzionati dal Trattato sia agli obblighi incombenti sui singoli, sugli Stati membri e sulle istituzioni comunitarie (v. sentenze 5 febbraio 1963, Van Gend [amp] Loos, causa 26/62, Racc. pag. 3, e 15 luglio 1964, Costa, causa 6/64, pag. 1127).

Poiché i giudici nazionali hanno il compito di applicare le norme del diritto eurounitario, di garantirne la piena efficacia e di tutelare i diritti da esse attribuiti ai singoli (v. in particolare sentenza 9 marzo 1978, Simmenthal, punto 16 della motivazione, causa 106/77, Racc. pag. 629, e sentenza 19 giugno 1990, Factortame, punto 19 della motivazione, causa C-213/89, Racc. pag. I-2433),  sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme europee e sarebbeinfirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità diottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del dirittoeurounitario imputabile ad uno Stato membro. Pertanto, il principio della responsabilitàdello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto eurounitario ad essoimputabili è inerente al sistema del Trattato e gli Stati membri sono tenuti a risarcire idanni causati ai singoli dalle violazioni del diritto eurounitario ad essi imputabili.  Mentre la sentenza Francovich e Bonifaci era limitata al caso della mancata attuazione di una direttiva da parte della Repubblica Italiana, la Corte ampliò e chiarì il principio con la successiva sentenza C-46/93 e C-48/93 Brasserie du pêcheur SA del 5 marzo 1996. In quell’occasione i governi intervenuti avevano sostenuto che l’obbligo degli Stati membri di risarcire i danni cagionati ai singoli si imporrebbe solo in caso di violazione di disposizioni prive di effetto diretto. La Corte, tuttavia, respinse una simile argomentazione argomentando che, secondo la giurisprudenza costante, la facoltà degli amministrati di far valere dinanzi ai giudici nazionali disposizioni del Trattato aventi effetto diretto costituisce solo una garanzia minima e non è di per sé sufficiente ad assicurare la piena applicazione del Trattato (v., segnatamente, sentenze 15 ottobre 1986, causa 168/85, Commissione/Italia, Racc. pag. 2945, punto 11; 26 febbraio 1991 , causa C-120/88, Commissione/Italia, Racc. pag. I-621, punto 10; e 26 febbraio 1991, causa C-119/89, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-641, punto 9). Questa facoltà, intesa a far prevalere l’applicazione di norme di diritto comunitario (oggi eurounitario) rispetto a quella di norme nazionali, non è idonea, rammentava la Corte, a garantire in ogni caso al singolo i diritti attribuitigli dal diritto europeo e, in particolare, ad impedire il verificarsi di un danno conseguente ad una violazione di tale diritto imputabile ad uno Stato membro. Infatti, anche nel caso della lesione di un diritto direttamente conferito da una norma comunitaria invocabile dai singoli dinanzi ai giudici nazionali il diritto al risarcimento costituisce ilcorollario necessario dell’effetto diretto riconosciuto alle norme comunitarie la cuiviolazione ha dato origine al danno subito.

Nella citata sentenza (v. cap. 27 e ss.) la Corte illustrò, inoltre, che, poiché nel Trattato mancano disposizioni che disciplinano in modo diretto e puntuale le conseguenze delle violazioni del diritto comunitario da parte degli Stati membri, spettava ad essa, nell’espletamento del compito conferitole dal Trattato di garantire l’osservanza del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato, statuire su tale questione avvalendosi dei canoni interpretativi generalmente accolti, facendo ricorso in particolare ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico comunitario e, se necessario, ai principi generali comuni agli ordinamenti giuridici degli Stati membri.

La Corte ricordava, a tale proposito, che è ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri che l’art. 215, secondo comma, del Trattato (oggi art. 340 TFUE) faceva rinvio in tema di responsabilità extracontrattuale della Comunità per i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. Il principio della responsabilità extracontrattuale della Comunità, che l’art. 215 del Trattato (oggi art. 340 TFUE) sancisce dunque espressamente, altro non è se non un’enunciazione del generale principio,riconosciuto negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, in forza del quale un’azioneo un’omissione illegittima comporta l’obbligo della riparazione del danno arrecato. Questa disposizione pone altresì in evidenza l’obbligo, incombente alle pubbliche autorità, dirisarcire i danni cagionati nell’esercizio delle loro funzioni.

Pertanto, il principio di responsabilità degli stati membri fu affermato dalla Corte in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto eurounitario commessa da uno Stato membro, qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione. Oltretutto, avuto riguardo alla fondamentale esigenza dell’ordinamento giuridico comunitario costituita dall’uniforme applicazione del diritto comunitario (v., segnatamente, sentenza 21 febbraio 1991, cause riunite C-143/88 e C-92/89, Zuckerfabrik, Racc. pag. I-415, punto 26), l’obbligo di risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario non può dipendere da norme interne sulla ripartizione delle competenze tra i poteri costituzionali, senza che rilevi la circostanza che la violazione da cui ha avuto origine il danno sia imputabile al potere legislativo, giudiziario o esecutivo. Tale principio deve valere a maggior ragione nell’ordinamento giuridico comunitario, in quanto tutti gli organi dello Stato, ivi compreso il potere legislativo, sono tenuti, nell’espletamento dei loro compiti, all’osservanza delle prescrizioni dettate dal diritto comunitario e idonee a disciplinare direttamente la situazione dei singoli.

Detta responsabilità discende anche dal fatto, messo in rilievo dalla corte nella sentenza C46/93 e C-48/93 Brasserie du pêcheur SA del 5 marzo 1996, che il legislatore nazionale nondispone di un ampio potere discrezionale quando si tratti di un settore disciplinato daldiritto eurounitario. Quest’ultimo può imporgli obblighi di risultato o di condotta o diastensione che riducono, talvolta in maniera considerevole, il suo margine di valutazione.La responsabilità civile dello Stato, per illecito del legislatore che abbia mancato di attuare direttive comunitarie è stata affermata sia in base all’applicazione del diritto comunitario (in modo particolare degli artt. 5 e 189, l Trattato) (Cass. 7630/2003; Cass. 10617/1995; Cass. 4915/2003) sia in forza dell’art. 2043 (T.A.R. Puglia, Lecce 11.1.2017, n. 12,secondo cui gli Stati membri dell’U.E. sono responsabili per i danni derivati ai singoli a causa di violazioni del diritto comunitario). La responsabilità dello Stato legislatore per violazione del diritto comunitario, inquadrata nell’ambito dell’art. 2043, apre secondo la dottrina la possibilità di ipotizzare una responsabilità dello Stato, nel caso in cui abbia emanato una legge incostituzionale. Sul punto vedasi in particolare Roppo, Appunti in tema di illecito “comunitario” e illecito “costituzionale” del legislatore, in Danno e resp., 1998, p. 961 ss.:  “se una legge intesa a colpire vessatoriamente e in modo discriminatorio unaclasse di cittadini, li impedisse o li limitasse nell’esercizio di una loro attivitàeconomica, con gravi danni patrimoniali a loro carico, e questa legge venissedopo qualche tempo fulminata di incostituzionalità, sarebbe giusto lasciare inultima istanza quei danni a carico delle vittime di un siffatto clamoroso

“illecito costituzionale” del legislatore?”.

Le parole di Roppo, risalenti a più di venti anni or sono, sembrano anticipare quanto effettivamente avvenuto in questi mesi e sono particolarmente calzanti per descrivere l’azione di danno qui esercitata.

Una volta accertata l’ingiustizia dell’azione legislativa in questione gli altri requisiti di cui all’art. 2043 c.c. sono facilmente individuabili. Infatti, l’incisione sui diritti affermati avviene direttamente ed ope legis giacché è il legislatore a negare il diritto al lavoro, all’autodeterminazione sanitaria ed alla non discriminazione. In altri termini la prova del danno e del nesso causale tra di esso e l’azione assunta come antigiuridica emerge dalle stesse Gazzette Ufficiali dove sono stati pubblicati i provvedimenti in questione. Trattandosi di norme di diritto non vi è un onere probatorio applicandosi il principio iura novit curia. Il fatto illecito è, dunque, la legge lesiva dei diritti fondamentali inviolabili degli attori, il danno consiste nel divieto loro imposto di esercitare i diritti in questione, il nesso causale tra il fatto illecito e il danno è dato dalla forza imperativa della legge che comporta una diretta incisione del provvedimento legislativo nel patrimonio dei soggetti interessati dal suo campo di azione.

Quanto all’elemento soggettivo, l’indagine se l’illecito addebitato al legislatore sia riconducibile al dolo oppure alla colpa appare di secondaria importanza. Le ripetute dichiarazioni di ministri ed appartenenti al governo (cfr. doc. 45, 46)fanno propendere per una ricostruzione in termini di dolo. Tuttavia, non può escludersi in radice la possibilità che le azioni illegali e illecite del governo siano avvenute, per così dire, “in buona fede” ossia sotto la pressione dell’emergenza sanitaria e nell’ansia di trovare una soluzione legislativa alla diffusione del virus SARS-CoV-2. Non vi è dubbio, tuttavia, per la struttura stessa dell’atto legislativo, che la sua adozione sia riconducibile ad uno o più atti consapevoli e volontari. Ciò comporta il diritto dei ricorrenti ad ottenere il risarcimento del danno subito ed il correlativo obbligo dello stato-persona.

  1. Il risarcimento del danno non patrimoniale

Il danno subito dagli attori ha una componente patrimoniale e una non patrimoniale. La presente azione è espressamente e volutamente limitata al solo aspetto del danno non patrimoniale con espressa riserva dei ricorrenti di azionare in separati giudizi individuali il danno patrimoniale subito da ciascuno di essi e che dovrà essere partitamente dimostrato mediante la produzione in giudizio di buste paga, registri IVA, dichiarazioni dei redditi e quant’altro utile o necessario a provare la perdita patrimoniale che sarà fondamentalmente riferita al mancato guadagno per tutto il periodo di sospensione della possibilità di lavorare a causa della mancanza del certificato verde Covid-19. Resta fuori, ancora, dal presente giudizio, ogni aspetto connesso al c.d. “danno biologico”, ossia alla menomazione psico-fisica, accertabile con tecniche medico-legali, connessa alla violazione dei diritti fondamentali qui denunciata. La presente azione è limitata, pertanto, al solo danno morale inteso come sofferenza psichica connessa ad un atto o unfatto illecito o illegittimo.

Ai fini dell’applicabilità dell’art. 2059 c.c. occorre sottolineare che le condotte addebitate allegislatore non sfuggono, almeno in via teorica, ad una loro valutazione in termini diilliceità penale. I reati sono quello di violenza privata (art. 610 c.p.) e di estorsione (art.629 c.p.) almeno sotto il profilo del tentativo. La condotta cui le norme di cui ai decreti-legge 44/2021 e 52/2021 intende costringere gli attori e la generalità dei cittadini italiani è quella di assoggettarsi forzosamente ad un atto di disposizione del proprio corpo quale la vaccinazione contro la malattia Covid-19 oppure l’effettuazione del tampone PCR per accertare la negatività al virus SARS-CoV-2. Abbiamo visto come l’incisione nel diritto fondamentale di libertà personale intesa come diritto all’autodeterminazione sanitaria sia antigiuridica in quanto in contrasto con la costituzione, con le fonti del diritto internazionale generale e particolare e con le norme dell’ordinamento eurounitario. In altri termini, la pretesa incisione sulla libertà corporale dei cittadini è illecita e illegale. Pertanto, la sanzione imposta (il divieto di guadagnarsi da vivere mediante il proprio lavoro) costituisce la minaccia prevista dalle due figure di reato, minaccia da ritenersi ingiusta ed illegale in quanto connessa ad una condotta che il legislatore non può legittimamente pretendere dai propri cittadini. Ciò posto, ed in considerazione della illiceità penale delle condotte del legislatore, il limite dell’art. 2059 c.c. appare agevolmente superato.

Tuttavia, anche se non si volesse ritenere penalmente rilevante quanto commesso in danno degli attori, occorre considerare che secondo Cass. n. 29191 del 2008 e Cass. n. 5770 del 2010 (conforme Cass. 26 maggio 2011, n. 11609)la componente del danno rappresentata dal danno morale soggettivo protegge un bene che attiene ad un diritto inviolabile della persona ovvero all’integrità morale, quale massima espressione della dignità umana, desumibile dall’art. 2 Cost. in relazione all’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, contenuta nel Trattato di Lisbona (ratificato dall’Italia con L. 2 agosto 2008, n. 130). Il danno risarcibile consiste, dunque, nella lesione dell’integrità morale degli attori, derivante dal divieto loro imposto di svolgere la loro attività lavorativa in quanto non possessori del certificato verde Covid-19 e, pertanto, nell’invasione del diritto di esplicare la propria personalità umana se non sotto la condizione della sottoposizione ad un trattamento medico o diagnostico.

Le norme dei decreti-legge 44/2021 e 52/2021 hanno dunque creato due categorie di cittadini, quelli muniti di “green pass” in quanto vaccinati o “tamponati” e quelli sprovvisti del documento in questione con una discriminazione contro la seconda categoria cui viene inibito l’accesso non solo ad una serie di attività (frequentazione di bar e ristoranti, musei e luoghi della cultura, svolgimento di attività sportive ecc.) ma cui viene anche proibito l’esercizio del diritto al lavoro con la conseguente condanna all’indigenza e la negazione della dignità umana connessa al lavoro. Il danno qui azionato consiste nella proibizione e nella conseguenteillegalità per tutti i ricorrenti dello svolgimento della loro attività lavorativa. Il diniego opposto dal legislatore incide, dunque, sulla stessa astratta possibilità di procurarsi un’esistenza libera e dignitosa secondo l’espressione utilizzata dall’art. 36 cost. Si tratta, dunque, di un danno la cui prova è immediatamente apprezzabile e si identifica con l’esistenza stessa delle norme adottate dal legislatore italiano.

Il risarcimento, esclusa la richiesta in questa sede dei danni patrimoniali e biologici che richiederebbero lo svolgimento di un’attività istruttoria incompatibile con il numero dei ricorrenti e la struttura del giudizio sommario, non potrà che essere affidato alla valutazione equitativa ad opera del tribunale. I diritti lesi sono diritti fondamentali della persona espressamente qualificati come “inviolabili” dalla costituzione repubblicana e assunti come fondamento dell’esistenza stessa dell’Unione Europea. Si tratta di diritti il cui godimento è essenziale al fine del rispetto della persona umana. Pertanto, la dimensione del danno morale appare grave e bisognevole di una condanna che permetta un ristoro dello sconvolgimento esistenziale connesso non solo all’esclusione da un ambito fondamentale della vita umana e sociale ma anche e soprattutto dalla ripetuta “demonizzazione” di tutte le persone che, nell’esercizio di una libera e legittima scelta, abbiano deciso di non sottoporsi ad un trattamento medico farmacologico e/o diagnostico sanitario. L’aggressione morale agli attori ed a tutti coloro che, come questi, abbiano rifiutato i trattamenti imposti dalla politica sanitaria governativa appartiene al notorio. Citiamo, a mero titolo di esempio, le dichiarazioni del presidente del consiglio il quale in una conferenza stampa del luglio scorso indicava i non vaccinati come responsabili della morte propria o delle persone che avrebbero potuto contagiare (doc. 54) , le compiaciute esternazioni del ministro Brunetta il quale lodava la genialità dello strumento del “green pass” poiché, vista l’evidente impraticabilità della sottoposizione continua a tamponi PCR, avrebbe costretto le persone a vaccinarsi pur se non desiderose di sottoporsi ad un simile trattamento (doc. 46). Da ultimo il viceministro Sileri dichiarava che i non vaccinati sarebbero “pericolosi” onde la decisione del governo di rendere loro la vita impossibile (doc. 45). Le leggi adottate dal governo ed il clima di odio e di divisione sociale che ne sono seguiti, fomentato sovente dagli stessi membri del governo, come visto, hanno determinato in capo agli attori quella sofferenza psicologica insuscettibile di una valutazione in termini patrimoniali o di danno fisico accertabile con le metodologie della medicina legale che rientra nella nozione di danno morale. Ci rimettiamo, quanto alla sua liquidazione, alla prudente valutazione equitativa del tribunale che potrà riconoscere una somma per ciascuno dei ricorrenti atta a reintegrarli delle sofferenze che essi hanno patito a causa delle condotte illecite di cui al presente giudizio.

*.*.*.*

Tutto ciò premesso, gli appellanti come in epigrafe generalizzati, rappresentati e difesi

CITANO

la Presidenza del Consiglio dei ministri in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, con sede in Roma, Piazza Colonna n. 370 (codice fiscale 80188230587), rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato di Roma, con sede in Via dei Portoghesi n. 12, pec ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it

a comparire dinanzi alla Corte d’Appello di Roma Sezione Civile destinanda, all’udienza che sarà tenuta il giorno 23 gennaio 2024, ore di rito, con l’invito costituirsi nel termine di venti giorni prima dell’udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite dall’art. 347 c.p.c. e a comparire, nell’udienza indicata, dinanzi al giudice designato ai sensi dell’art. 349 bis c.p.c., con l’avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui agli art. 343 c.p.c., che la difesa tecnica mediante avvocato è obbligatoria, fatta eccezione per i casi previsti dall’articolo 86 c.p.c. o da leggi speciali, e che la parte, sussistendone i presupposti di legge, può presentare istanza per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, per ivi sentire accogliere le seguenti

CONCLUSIONI

Voglia l’Ecc.ma Corte d’Appello adita, in riforma dell’ordinanza ex art. 702 bis c.p.c. prot. 16375/2023 depositata in cancelleria il 19 luglio 2023 e comunicata il 28 luglio 2023, pronunciata dal Tribunale di Roma, Sez. II Civile, Giudice Dr.ssa Assunta Canonaco nel procedimento tra le parti in epigrafe iscritto al n. 10702/2022 RG,

-Accertare e dichiarare che gli appellanti sono titolari dei diritti fondamentali alla non discriminazione, alla libertà personale con particolare riferimento al diritto all’autodeterminazione sanitaria con la conseguente illegittimità ed illiceità dell’imposizione di qualsiasi trattamento medico farmacologico o medico-diagnostico, allo studio ed al lavoro inteso come diritto a guadagnarsi da vivere con un’attività lavorativa o professionale di propria scelta;

-Accertare e dichiarare che con le norme di cui ai decreti-legge 44/2021 e 52/2021, meglio illustrate in narrativa ed impositive del certificato verde Covid-19 per l’accesso ai luoghi di lavoro e di studio, la Repubblica Italiana ha violato i diritti in questione degli appellanti;

-Condannare per l’effetto la Repubblica Italiana a risarcire agli appellanti il danno morale subito in conseguenza della violazione dei loro diritti fondamentali e per l’effetto a pagare a ciascuno di essi una somma una tantum determinata dal Tribunale in considerazione di quanto esposto in narrativa e da liquidarsi in via equitativa con salvezza della richiesta in separati giudizi del danno patrimoniale e del danno biologico subito da ciascuno degli appellanti;

-Ritenuta la non manifesta infondatezza delle questioni di costituzionalità illustrate nel testo del ricorso rimettere gli atti alla Corte costituzionale ai sensi dell’art. 23 della legge n. 87/1953;  -In caso di dubbio sull’interpretazione delle norme eurounitarie disporre rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sottoponendo alla Corte i seguenti quesiti:

  1. Se le disposizioni di cui agli art. 3, 14, 15, 16 e 21 della CDFUE nonché l’art. 5 della Convenzione di Oviedo ostino a disposizioni legislative nazionali, come le norme di cui ai decreti-legge 44/2021 e 52/2021, che facciano obbligo a tutti o taluni cittadini a sottoporsi a determinati trattamenti sanitari farmacologici o diagnostico-sanitari sotto pena, in difetto, della perdita del diritto a svolgere la propria attività lavorativa;
  2. Se, in particolare, le indicate norme della CDFUE e della Convenzione di Oviedo trovino diretta applicazione nel diritto degli stati membri, ai sensi e per gli effetti degli artt. 6 TUE, 4, 168, 207 e 216 TFUE, allorché questi legiferino in materia di sanità pubblica;
  3. Se le disposizioni del regolamento UE 953/2021 ostino a disposizioni legislative nazionali, come le norme di cui ai decreti-legge 44/2021 e 52/2021, che facciano obbligo a tutti o taluni cittadini a sottoporsi a determinati trattamenti sanitari farmacologici o diagnostico-sanitari sotto pena, in difetto, della perdita del diritto a svolgere la propria attività lavorativa;

All’atto della costituzione in appello si produrrà oltre alla copia notificata della presente citazione ed alla copia autentica dell’ordinanza impugnata la seguente documentazione:  all. 1 TAR Lazio 13094_2023 all. 2 Segreto militare sui vaccini, report sulla sicurezza negati dall’Ema quali sono i motivi all. 3 Strategia dell’UE sui vaccini all. 4Coronavirus__La_Commissione_presenta_la_strategia_dell_UE_sui_vaccini-1 all. 5 commission-decision-implementing-advance-purchase-agreements-covid-19-vaccines all. 6 Regolamento 2016_369 all. 7 Regolamento 2020_0521 all. 8 History of EMA European Medicines Agency all. 9 Regolamento CE 2004_726 all. 10 Universal Declaration on the Human Genome and Human Rights _ UNESCO all. 11 Terapia genica_ un nuovo sistema di trasporto per l’mRNA – Osservatorio Terapie Avanzate

all. 12 Discovery Identifies a Highly Efficient Human Reverse Transcriptase that can Write RNA Sequences into DNA

all. 13 Polθ reverse transcribes RNA and promotes RNA-templated DNA repair _ Science Advances all. 14 SARS-CoV-2 Spike Impairs DNA Damage Repair all. 15 Reverse-transcribed SARS-CoV-2 RNA can integrate into the genome of cultured human cells and can be expressed in patient-derived tissues all. 16 Vaccini Covid-19 ad mRNA modificano il DNA_ Nuovi studi all. 17 Covid, studio_ “dimostrata la trascrittasi inversa con il vaccino Pfizer

all. 18 Alden et al., Intracellular Reverse Transcription of Pfizer BioNTech Covid-19 mRNA

Vaccine

all. 19 Res. 2361 Consiglio d’Europa

Copia del fascicolo di parte di primo grado con i documenti di cui al relativo indice.

Si dichiara che il valore della presente controversia è indeterminabile.

Roma, li 15 settembre 2023

                                                                                    Avv. Alessandro Fusillo

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore.

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