Così è morto mio papà in ospedale, per Covid ufficialmente. Ci è stato restituito in un sacco nudo, coperto di varechina, Elisabetta Stellabotte, presidente del Comitato “L’altra verità”

Elisabetta Stellabotte, presidente del Comitato “L’altra verità” ha raccontato come ha perso suo papà, ufficialmente per Covid. La sua è una storia purtroppo comune, di chi ha perso i propri cari in ospedale, senza la possibilità di vederli, di fargli un funerale, di salutari un’ultima vola.  “I nostri cari non hanno potuto avere il conforto, non hanno potuto stringere la nostra mano, non hanno potuto vederci, non hanno potuto vedere, avere neppure l’estrema unzione. Ci sono stati restituiti in un sacco senza la possibilità di vestirli, nudi, coperti di varechina come a punirli perché il morto contagiava”.

“Bisogna che la gente sappia cosa è successo all’interno degli ospedali. I nostri cari non torneranno più, ma perché le loro morti non siano successe in vano, noi dobbiamo fare in modo che questo non accada più e possiamo farlo solo con la verità.

Questo è mio papà Antonio, 77 anni. Ha perso la vita, secondo questo stato, per il Covid. Secondo le cartelle cliniche periziate, ha perso la vita per eutanasia. Siamo stati lasciati soli, siamo l’altra parte degli invisibili, siamo quelli che non vanno neppure sentiti, perché i morti ci sono stati ma sono stati dimenticati.

Il 13 marzo 2021 mio padre ha un rialzo glicemico e temperatura sotto i 38, viene chiamato il 118 che lo trasporta presso l’ospedale. Ricevo una telefonata dopo due giorni di ricerca del paziente da una dottoressa che mi dice di averlo trovato e che mi comunica la positività del papà. Chiedo di poterlo portare a casa, in un primo momento mi viene detto di sì, ma la cosa mi viene smentita il giorno successivo per innalzamento della temperatura. La dottoressa mi comunica che il papà non rientra nel protocollo, ha 77 anni ed è diabetico.

Nei giorni successivi comunichiamo con il papà, sia in chiamate che in videochiamate. Appare tranquillo, senza problemi respiratori, è lucido nei ragionamenti e mi chiede se a casa stiamo tutti bene. Le comunicazioni si interroppono il quarto giorno, il telefono squilla vuoto. Chiamo una decina di volte il reparto senza avere nessun successo. Solo dopo svariate e svariate prove mi rispondono e mi viene comunicato che il papà non risponde perché è stato contenuto ai polsi, perché si agitava e chiedeva di tornare a casa. Dopo una forte discussione con la dottoressa che a suo parere comunica che il paziente è confuso e non sa rendersi conto di dove si trova, intimo di chiamare i carabinieri. Mi viene concesso così di svegarlo e di fare una chiamata.

Il papà risponde lucidissimo e mi dice che sta facendo le cure e per prenderci cura della mamma. Il giorno successivo ricevo la chiamata dalla stessa dottoressa che mi comunica che il paziente non risponde alle cure antibiotiche e che loro non sanno più cosa fare oltre il protocollo e di aspettarci il peggio. Dopo mezz’ora inaspettatamente ricevo la telefonata di mio padre che lucido mi dice di stare serena e che lui vuole tornare a casa il giorno stesso. Viene bruscamente tolto il telefono dall’infermiere. Vengo richiamata dalla dotoressa solo la mattina successiva per dirmi che interrompono le cure e che passeranno alla cura palliativa. Mi renderà concesso una videochiamata di un minuto per farlo salutare per l’ultima volta alla mamma. Ci accordiamo che mi faccia trovare dalla mamma pronta per le 15.30 e così avviene la chiamata, 45 secondi.

Papà ci guarda tutti in video, evidentemente sorpreso. Mia mamma fa solo in tempo a dire ciao amore mio e la dottoressa toglie la comunicazione. Verrò contattata solo mezz’ora dopo dicendomi che procedono con la cura paliativa. Nego il consenso, ma la dottoressa mi dice, signora non ho bisogno del suo consenso, siamo in emergenza, il protocollo prevede questo. L’equip ha deciso per la cura palliativa. Chiedo fino allo sfinimento di poterlo portare a casa e mi viene legato, facendo coerzione psicologica e dicendomi che se lo portassi a casa potrebbero venire in macchina e io denunciata di omicidio colposo. Mi arrendo senza forze, né fisiche né psicologiche, mi sembra un incubo. Stanno uccidendo letteralmente mio padre e io non posso fare nulla. Alle 20 ricevo un’altra chiamata, sempre dalla stessa d3ottoressa, che mi comunica di aver provveduto alla cura palliativa e che papà dorme, dovrebbe spegnersi nella notte. Impazzisco dal dolore e le dico mio padre sta morendo e io sono qui senza poter far nulla.

Io divento matta, mi butto giù da un tetto. Dal tono molto spaventato mi risponde, mi scusi ma non avevo capito che avevate l’esigenza di vedere il papà. Rimango d’accordo che il giorno d’oggi seguente, se le condizioni del paziente lo permettono e non si è spento, la dottoressa mi faccia entrare. Arrivo al reparto, chiedo subito che venga fermata questa follia e lei si altera, dicendo che non aveva né tempo né intenzione di parlare di questa situazione. Le comunico che scenderò subito chiamando un legale e si zitta, mi dice faccia come vuole. Scendo in direzione sanitaria spiego la mia situazione e mi viene risposto che è molto grave che il papà aveva diritto essendo un paziente fragile, un paziente anziano e con un soggetto psicologicamente fragile, aveva diritto avere la visita di un patente tutti i giorni.

Mi viene chiesto il nominativo della dottoressa di salire di corsa e se non trovavo la porta aperta avrebbero chiamato il carabiniere. Salgo ovviamente la porta aperta e la dottoressa Entro e parto. Un’infermiera viene incontro e dice qualcosa sotto voce. Mi chiede di aspettare un attimo perché stanno lavando il papà. Entra in stanza dove rimane per qualche minuto. Da lì esce solo lei, nessuno stava lavando il papà. Scoprirò in seguito che lo stavano dicendo all’alta voce, parente, parente, cosa al quanto sospetta. Entro in camera e trovo mio papà mezzo scivolato dal letto. Lei lo tira su, gridando, dai su, è arrivata tua figlia. Il papà ha gli occhi completamente ricoperti di una patina bianca. Non penso mi veda, ma mi capisce e reagisce alle mie parole, stringendomi la mano, al casco ci fatta, legato al collo con tre giri di scotch e sangue tra i denti. Chiedo spiegazioni e la dottoressa, alzando le spalle, mi dice che non sa rispondermi.

Dopo un po’, quando la dottoressa mi dice guardi il tempo di visita è terminato, lui allunga la mano verso di me e con uno sforzo estremo tira sul busto per avverciarmi. Lei con una mano lo rimette a suo posto dicendo esagerato. Sono sotto shock, stringo la mano a mio papà che non reagisce e lei mi chiede di uscire perché potrebbe agitarsi. Piangendo esco e non mi fanno più rientrare. Mio papà si spegnerà il giorno dopo, ci sarà restituito dentro un sacco nero, chiuso in una cassa di legno.

Ora questa è la storia del mio papà, come questa storia ce ne sono tantissime altre. I nostri cari non hanno potuto avere il conforto, non hanno potuto stringere la nostra mano, non hanno potuto vederci, non hanno potuto vedere, avere neppure l’estrema unzione. Ci sono stati restituiti in un sacco senza la possibilità di vestirli, nudi, coperti di varechina come a punirli perché il morto contagiava. Abbiamo avuto dei funerali senza cadavere. I più fortunati se lo sono ritrovati chiusi in una cassa di legno, gli altri se lo sono visto in una casettina.

Non abbiamo avuto la stretta di mano di un parente, non abbiamo avuto un abbraccio, perché non si poteva, era vietato. Allora, quando ciubisci un lutto così grave, hai uno shock, e le cose sono due, o impazzisci di dolore, o trasformi questo dolore in qualcosa di concreto, in amore verso gli altri, per non impazzire. E allora è nato questo comitato, questa realtà, dove ci confrontiamo, dove invitiamo le persone ad avere il coraggio di denunciare, di prendere le cartelle cliniche, di farle periziare, anche se fa male.

Io penso che tutti noi, se vogliamo ritenerci uomini di un certo valore, dovremmo cercare la verità. Io penso che noi tutti dobbiamo chiedere scusa a due generazioni. La generazione più bella che ci hanno portato via, che è quella dei nostri padri e delle che hanno fatto grande l’Italia e ce la siamo fatta portare via in un lampo e dobbiamo chiedere scusa ai nostri figli e ai nostri nipoti per non essere stati in grado di difenderli.

La mia nipotina Giulia quando è morta il nonno aveva solo un anno. Un mese fa, riguardando la sua foto, mi ha fatto una domanda che mi ha fatto riflettere. Mi ha chiesto, posso chiedersi una cosa? Ma il nonno, cosa è successo? Perché io lo vedo solo in foto? Allora mi sono sentita in dovere di scrivergli una lettera che magari leggerà quando è più grande, perché ai bambini non si può mentire, bisogna dire sempre la verità. Posso chiederti una cosa? Ma a nonno cos’è successo? Perché io lo vedo in foto? Giulia, tre anni. E come te lo spiego, amore, cos’è successo a nonno? Potrei anche dirti che nonno è lì in cielo tra gli angeli ed è vero, ma come te lo spiego cos’è successo? Sai, gli uomini loro ci proveranno ad raccontarti che un giorno è arrivato un virus sconosciuto e che questo virus ha preso tutti alla sprovvista. Era cattivo, talmente cattivo che non si poteva neppure curare. Proveranno a dirti che doveva andare così, che loro ci hanno provato a curarlo, ma non si poteva fare niente perché il virus era cattivo.

E invece no, Stellina mia, non è andata così.  Quel virus si poteva curare se solo lo avessero voluto. C’erano le medicine giuste e anche i medici giusti, di coscienza e coraggiosi che lo sapevano curare. Invece il nonno Giulia Cara purtroppo si è fidato della parte sbagliata, si è fidato del suo Stato, del suo governo, della sanità di questo paese ed è questo che lo ha tradito, sì, proprio quella sanità di cui lui tanto si fidava. L’eccellenza della Lombardia, diceva lui, loro lo hanno tradito, lo hanno ingannato.  I medici hanno seguito un protocollo imposto e scritto da chi di medicina non ne sapeva nulla. E i medici, i medici dire tu, loro hanno fatto il loro lavoro, hanno salvato vite?

Lo diceva il protocollo, ti diranno. Sai, amore, l’uomo ha toccato il fondo e forse lo ha anche scavato. Ha perso dignità, ha perso umanità. Ora sei piccola, ma un giorno saprai. Tu ora devi chiedere solo perché non puoi giocare con lui, perché non può vederti crescere, perché non può tenerti per mano. Chiedilo amore a questi governanti di questo paese. Diglielo di guardarsi negli occhi e di dirtelo perché tu non hai più il nonno. Solo una certezza, Sessoro, il nonno ti starà sempre vicino.

Ora è un angelo che cammina a tuo fianco e da lassù ti vede quando giovhi sull’altarena e fai la monella. Lui starà sempre con te e tra poco anche con il tuo nuovo fratellino. Cresci serena, piccola mia, ma un giorno, quando sarai grande, prendi coraggio, cerca la verità e chiedi sempre ai responsabili il perché. Noi abbiamo una sola speranza,  la speranza è che solo tre cose non si possono tenere nascoste a lungo e questi sono il sole, la luna e la verità. E io combatterò per la verità fino all’ultimo giorno”.

Elisabetta Stellabotte, presidente del Comitato “L’altra verità” alla presentazione di Invisibili a Rho a luglio 2023

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore.

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