“Il caso accaduto nel marzo del 2023 a Taurianova, in provincia di Reggio Calabria.
Nell’occasione un medico del 118 (l’unico della zona) non avrebbe impedito la morte – e quindi l’avrebbe cagionata ai sensi dell’art. 40 comma 2 c.p. – di una persona infartuata, rifiutando di trasportarla in ospedale per il sospetto che essa fosse positiva al covid-19 (poi risultato negativo al tampone di controllo)”, spiega l’avv. Angelo di Lorenzo di Avvocati Liberi.
“Il sanitario, nell’occasione, rifiutava un atto dovuto del proprio ufficio (art. 328 c.p.) sostenendo di non avere nell’ambulanza i dispositivi di protezione necessari per difendersi dal covid-19, e rifiutava altresì quelli offerti dal pronto soccorso di Gioia Tauro, lasciando così morire il paziente (artt. 590sexies-589 c.p.) che avrebbe potuto salvare se lo avesse doverosamente e tempestivamente trasportato all’ospedale di Reggio Calabria.
Se accertata, la colpa sarebbe gravissima, al limite del dolo, tanto che il Tribunale reggino, nelle more delle indagini in corso ma sussistendo gravi indizi di colpevolezza, applicava al medico la misura cautelare interdittiva della sospensione dall’esercizio del pubblico servizio per 12 mesi che, peraltro, veniva impugnata in Cassazione dall’indagato.
La IV sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 9188 depositata il 4.3.2024 rigettava il ricorso cautelare del sanitario, rinviando al Tribunale solo per dirimere una contraddizione tra motivazione e dispositivo in ordine al tempo di durata dell’interdizione.
Nel merito però la Corte di Cassazione ha riaffermato principi di grande rilevanza per il ripristino della logica, del buon senso, del diritto e soprattutto della tutela dei cittadini nel pretendere cure e assistenza adeguate, confermando il pericolo della condotta sprezzante del medico, oppositivo, incurante della necessità di bilanciare la vita di un paziente che versava in condizioni critiche con il rischio di contagio di una persona che era pure vaccinata.
La condotta del medico è stata ritenuta dalla Corte cosciente ed ingiustificata, denotante il disinteresse verso i rischi per la salute del paziente a fronte di un minore e pressoché inesistente pericolo di contagio, accompagnati da un comportamento successivo ai fatti indicativo della mancata presa di coscienza della gravità delle proprie azioni.
In questi ultimi anni il covid-19 ha inoculato nel nostro ordinamento una sovranità ideologica che ha prodotto una sorta di tirannia del diritto emergenziale e del servizio sanitario autoregolato dai singoli operatori, le cui egoistiche e timorose convinzioni soggettive sono rimaste senza controllo e senza responsabilità alcuna, seppure in grado di usurpare la primazia della vita, della scienza, della cura e dell’assistenza dei malati, nel nome della prevenzione dal contagio o della positività del paziente, quand’anche tale positività fosse solo putativa, sospetta e inoffensiva.
È successo veramente di tutto all’interno delle strutture sanitarie italiane, e non solo; la gran parte dei medici ha abbandonato i malati al loro destino; in moltissimi si sono girati dall’altra parte in forza di protocolli istigativi della omissione, perché l’approccio era stare lontano più possibile dagli untori e vigilare fino al sopraggiungere degli esiti fatali.
Abbiamo assistito a fatti indicibili, inimmaginabili in un Paese civile, gravissimi atti sanitari commissivi ed omissivi che hanno portato alla morte di centinaia di migliaia di persone, ma i responsabili di questo sterminio rivendicano l’eroicità delle loro gesta, vogliono premi in denaro, hanno ricevuto encomi, nonostante siano rimasti insensibili alla sorte delle povere anime di cui hanno contribuito a procurare o non impedire la morte.
Il problema è che un simile approccio è praticato da molti sanitari ancora oggi, ad “emergenza” terminata, con la rendita di un’immunità istituzionale che “scuda” la colpa.
Avviso ai naviganti: questo è un monito, scudo🛡 o non scudo 🛡”
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