“Le prove scientifiche accumulate finora impongono cambi di rotta nelle strategie vaccinali”, CMSi

La Commissione Medico-Scientifica indipendente, si appella ai politici: “Le prove scientifiche accumulate finora impongono cambi di rotta nelle strategie vaccinali”.

La realtà documentata dai dati ISS è che oggi, in media, rispetto ai non vaccinati di pari fascia d’età:

  • i bambini di 5-11 anni con due dosi di vaccino si infettano il 39% in più;
  • i giovani 12-39 anni con booster si infettano il 36% in più;
  • gli adulti 40-59 anni con booster si infettano il 64% in più;
  • gli anziani 60-79 anni con un booster si infettano come o più dei non vaccinati, e se fermi a 2 dosi (dunque probabilmente a maggior distanza dall’ultimo inoculo) si infettano il 19% in più.

Solo nella fascia d’età di 80 e più anni i dati ISS mostrano nei vaccinati con un booster meno infezioni dei non vaccinati.

I dati italiani sono coerenti con un gran numero di studi internazionali (**) presentati in occasione del Congresso POLI-COVID-22 (https://www.libera-scelta.it/policovid22/) da poco svoltosi a Torino, che chiunque può visionare nelle slide (v. quelle sull’efficacia verso le infezioni sul sito della CMSi) o in videoregistrazione, richiedendo gli studi integrali da cui sono tratte, se avesse difficoltà a reperirli.

In particolare, si ricorda la presentazione del Prof. John Ioannidis

(https://www.youtube.com/watch?v=6g7J9VTXqZc&t=10111s), epidemiologo dell’Università di Stanford, che ha mostrato come i vaccini in pratica non abbiano avuto effetto nel contenimento dell’ondata epidemica e ha richiamato la necessità, nella corrente fase endemica, di attuare rigorosi studi randomizzati prima di procedere a ulteriori booster sulla generalità della popolazione.

Il messaggio di fondo si può così ribadire: il tempo trascorso dall’ultima dose di vaccino è la variabile fondamentale. Infatti la protezione vaccinale dall’infezione, buona all’inizio con le precedenti varianti ma solo mediocre con Omicron, declina poi rapidamente, si azzera in pochi mesi, quindi si inverte, cioè i vaccinati diventano in media più soggetti a infettarsi dei non vaccinati. I booster ripristinano in modo transitorio la protezione iniziale, ma anche dopo tali richiami si torna a perdere velocemente la protezione dall’infezione, con un percorso che sembra accelerato al ripetersi dei successivi inoculi (Gazit, BMJ 2022;377:e071113).

Il gruppo di epidemiologi del Qatar, già autore di una serie di pubblicazioni di eccellenza sul New England Journal of Medicine, ha presentato in preprint (Chemaitelly, 2022) uno studio nazionale sull’efficacia della 3a dose a un anno, fino al 12 ottobre 2022. Gli effetti sull’infezione sono impressionanti: a un mese dal booster la protezione è un poco inferiore al 60% con il vaccino Pfizer e al 50% con Moderna, ma a 6 mesi dal booster è ormai vicina a zero, e dai 7 mesi diventa negativa. A 10-11 mesi dal booster è scesa a un significativo meno 24-26% con Pfizer e meno 67-70%con Moderna, sotto al livello di chi ha fatto il ciclo primario di 2 dosi, mostrando un importante aumento della suscettibilità all’infezione, che riguarda anche i soggetti con protezione ibrida, cioè vaccinati e con infezioni naturali (NB: la protezione dalla rara COVID-19 grave resta buona, ma si consideri quanto esposto nei successivi punti 1-4).

La drammatica perdita di protezione dall’infezione appare anche in uno studio in California (Tseng HF, 2022, preprint) sul vaccino Moderna, dove diventa chiaramente negativa dopo 5 mesi dal booster verso le varianti BA.2 e BA.5 di Omicron.

È verosimile che il rischio di infezione si traduca anche in un rischio di trasmissione, come mostra – tra l’altro – un grande studio israeliano (Woodbridge et al. Nat Commun 2022;13:6706), in cui, in caso di reinfezione, le cariche virali (considerate proporzionali al rischio di trasmissione) a 70 giorni di distanza dalla 3a dose erano in tendenza già aumentate rispetto alle cariche virali medie dei non vaccinati.

Al contrario nei guariti – in caso di reinfezione – le cariche virali si mantenevano in modo prolungato a un livello inferiore.

Un’ulteriore ricerca in preprint (dunque suscettibile di modifiche quando arrivi a pubblicazione formale) di ricercatori della Cleveland Clinic, in Ohio (USA), mostra dati altrettanto espliciti: su 51.000 lavoratori della Clinica il numero delle dosi è associato con una progressiva maggior propensione alla reinfezione, come mostra la tabella sotto riprodotta e l’immagine acclusa. Come si vede, rispetto ai non vaccinati le infezioni nei vaccinati con 1 dose sono aumentate del 70%, con due dosi di oltre 2 volte e ½, con 3 dosi di oltre 3 volte… Tutte le differenze sono altamente significative.

Da Table 2. Associazione con il tempo necessario per arrivare a una nuova diagnosi di COVID-19

  1. di precedenti dosi di vaccino Indice di rischio corretto     P

                                                      (e intervalli di confidenza al 95%)

Nessuna dose (riferimento)                          1

1                                             1,70 (1,30-2,24)                    < 0,001

2                                             2,63 (2,19-3,17)                    < 0,001

3                                             3,15 (2,63-3,77)                    < 0,001

+ di 3                                    3,38 (2,70-4,23)                    < 0,001

 Una ricerca sull’Islanda, per fare un altro esempio, aveva già mostrato risultati analoghi.

Alla luce dei dati ufficiali esposti, salvo prova contraria che emergesse in un dibattito scientifico senza censure, che invitiamo ad aprire, è il dibattito pubblico ad aver portato fuori strada la Consulta, con la riproposizione di affermazioni contrarie a quanto emerge dai dati. Purtroppo le Istituzioni scientifiche di riferimento continuano a non offrire interpretazioni più corrette dei dati da loro prodotti.

Quanto su esposto dovrebbe rendere chiaro che non è affatto rispettata la condizione a) prevista dalla nostra Costituzione per legittimare un trattamento sanitario obbligatorio per legge, cioè:

(…). Anzi, nel medio periodo può valere persino l’opposto. Dunque l’invocato “principio di solidarietà” non ha più motivo oggettivo di essere utilizzato per giustificare l’obbligo di queste vaccinazioni.

Quanto alla condizione b) per l’ammissibilità di un obbligo di legge, cioè se vi sia “previsione che il trattamento non incida negativamente  sullo stato di salute di chi vi è assoggettato”, salvo che per conseguenze temporanee e di scarsa entità, saremmo in grado di provare che neppure questa condizione è rispettata, in un confronto scientifico istituzionale che la CMSi chiede da oltre un anno, sinora negato. Si anticipano in sintesi i motivi.

Anzitutto per l’enorme sottostima delle sospette reazioni avverse rilevate nei sistemi di vaccinosorveglianza passiva o segnalazione spontanea (adottati in gran parte del mondo, e comunque dal VAERS negli USA, da EudraVigilance dell’EMA nell’Unione Europea, dall’AIFA in Italia) rispetto alla sorveglianza attiva attuata negli studi clinici randomizzati controllati registrativi negli adulti per i vaccini Pfizer e Moderna, e dal programma v-safe dei CDC(Centers for Disease Control and Prevention) negli USA. Le reazioni avverse ai vaccini a mRNA segnalate nei suddetti esempi di sorveglianza attiva superano da centinaia fino a mille volte e più quelle dei sistemi di sorveglianza passiva e, per quanto possa sembrare incredibile, ciò vale anche per le reazioni avverse gravi (severe), come dimostra in modo incontestabile il confronto tra le fonti sopra citate.

Per quanto riguarda uno degli effetti avversi più citati, le miocarditi (e/o pericarditi), i pochi esempi di sorveglianza attiva, realizzati in Tailandia su ragazzi di 13-18 anni o in Svizzera su 770 operatori dell’Ospedale di Basilea, mostrano che le miocarditi (e/o pericarditi) subcliniche documentate da marcatori validati sono un migliaio di volte più comuni di quanto comunemente ammesso in base ai dati della sorveglianza passiva.

Nel caso dell’ultimo Rapporto AIFA (pag. 17), che riferisce solo di miocarditi “clinicamente definite”, il divario è addirittura dell’ordine delle 10.000 volte.

Inoltre la condizione b) risulta non rispettata se si illustra senza omissioni l’argomento della “protezione da malattia severa” (che comporti ospedalizzazioni, accessi in terapia intensiva o decessi). Infatti, è vero che la protezione da malattia severa si mantiene buona per i vaccinati, ma:

  1. anche nei confronti della malattia severa il vantaggio si erode nel tempo (specie nei confronti di Omicron) negli adulti e in età pediatrica (esempi:Moller Kirsebom FC, Lancet 2022;23:100537 // Tartof S, Lancet 2021;398:1407-16 // Tartof, JAMA NO 2022;5:e2225162 // Lin D-Y, NEJM 2022;387:1141-43 // Moller-Kirsebom FC, Lancet, 2022;23:100537), benché più lentamente rispetto a quello verso l’infezione
  2. Andrebbe sempre precisato che il vantaggio nei confronti della malattia severa, enfatizzato di continuo in comunicati istituzionali e dai media, si riferisce alla COVID-19, non riguarda tutte le malattie che portano a ricoveri ecc. Anzi, Peter Doshi (Doshi P, Vaccine 2022;40:5798–805), basandosi sui trial randomizzati registrativi, che rappresentano la fonte più valida per fare confronti tra vaccinati e non vaccinati, ha dimostrato che l’eccesso di eventi avversi gravi di speciale interesse nei gruppi vaccinati supera di oltre 2 volte (con il vaccino Moderna) e di oltre 4 volte (con Pfizer) l’eccesso di ospedalizzazioni da COVID-19 che si è documentato nei gruppi di controllo. Un’ulteriore impressionante documentazione da famosi epidemiologi, medici di sanità pubblica, ecc. deriva dalla valutazione dello sfavorevolissimo bilancio tra danni e benefici della 3a dose per giovani adulti (Bardosh K, J Med Ethics/BMJ 2022). Dunque le malattie gravi totali nette sono risultate maggiori nei vaccinati rispetto ai non vaccinati nei trial randomizzati (NB: per le reazioni avverse severe ciò si è confermato anche in trial randomizzati registrativi su adolescenti (Ali K, N Engl J Med 2021;385:2241-51), se si ha la costanza di esaminare anche le tabelle nell’Appendice elettronica)…
  3. e ciò ha riguardato in tendenza anche i confronti tra decessi, fino a quando i produttori hanno reso disponibili al pubblico i dati relativi (nel trial su adulti di Moderna: 16 decessi nel gruppo vaccinato verso 16 nel gruppo di controllo, con risparmio di qualche morto per COVID-19 tra i vaccinati bilanciato da morti in più per altre cause, soprattutto cardiovascolari // nel trial su adulti di Pfizer: 21 morti nel gruppo vaccinato verso 17 morti nel gruppo di controllo, con riduzione di qualche morto per COVID-19 tra i vaccinati sovracompensata da morti in più per altre cause, soprattutto cardiovascolari).

I punti precedenti dovrebbero indurre a modificare i comunicati istituzionali, che ancora oggi parlano ad es. di “tassi di mortalità per i non vaccinati alcune volte più alti rispetto ai vaccinati con booster”, senza precisare che non si tratta di mortalità totale, come il pubblico può essere portato a pensare, e comunque senza precisare anche quanto spiegato nei punti da 1 a 3.

  1. Ormai con la variante Omicron (che si è dimostrata meno letale di un’influenza stagionale Xue L, Int J Infect Dis 2022;121:195–202) i rischi più gravi da COVID-19 sono ridotti al minimo, mentre i dati inglesi (dell’Ufficio Nazionale per le statistiche UK) relativi al 2022, purtroppo pubblicati per stato vaccinale solo da gennaio a non oltre maggio, mostrano un’allarmante tendenza all’aumento della mortalità in tutte le fasce di età nei vaccinatirispetto ai non vaccinati, con grandi differenze rispetto al 2021, quando la mortalità totale tra i vaccinati era nettamente inferiore rispetto a quella dei non vaccinati. Quest’ultimo aspetto può costituire una giustificazione per politiche sanitarie adottate in passato, quando appariva predominante l’associazione con un effetto benefico complessivo delle campagne vaccinali, ma non possono continuare a essere invocate ora, quando anche indagini epidemiologiche sui dati di Eurostat attuate da scienziati inglesi mostrano nel 2022 (da aprile ad agosto) tendenze sfavorevoli tra livelli di vaccinazione dei vari paesi e mortalità totale, anche per l’associazione con i livelli di copertura con booster. Una volta di più, preghiamo chi legge di non passare oltre, di aprire il link ed esaminare i grafici eloquenti, per verificare se siamo meritevoli o no di credibilità.

Benché ciò non costituisca ancora prova decisiva contro le strategie in atto, quanto sopra rafforza comunque la richiesta, emersa con vigore anche nel Congresso POLI-COVID-22, di aprire un urgente confronto scientifico anche con voci scientifiche critiche, come quelle presenti al Congresso, cui è stato di nuovo negato un confronto istituzionale.

In ogni caso, si ritiene che le strategie di contrasto alla Covid-19, e alle infezioni in generale, non dovrebbero puntare solo sui vaccini (che stanno assorbendo in modo sproporzionato gli sforzi di ricerca, educazione e formazione, finanziari, organizzativi/di personale dei Sistemi sanitari), ma anche anzitutto su stili di vita salutari, nonché su prevenzione primaria ambientale e terapie di efficacia documentata, certo, ma anche altamente sicure e sostenibili.

I firmatari membri della Commissione Medico-Scientifica indipendente (CMSi):

Prof. Marco Cosentino, Dott. Alberto Donzelli, Prof. Vanni Frajese, Dott.sa Patrizia Gentilini,

Prof. Eduardo Missoni, Dott. Sandro Sanvenero, Dott. Eugenio Serravalle

(*) Il tasso di infezione per un dato gruppo (non vaccinati, vaccinati con 1-2 dosi, con booster, ecc.) è calcolato come il rapporto tra numero di diagnosi e popolazione di quel dato gruppo (Tabella 5A del Bollettino settimanale ISS). Il rapporto R tra il tasso di un gruppo vaccinato rispetto al tasso del gruppo non vaccinato indica quale gruppo ha avuto più casi di infezione COVID-19 diagnosticati.

Nelle nostre rappresentazioni grafiche, R maggiore di 1, indica che il gruppo vaccinato ha ricevuto più diagnosi di infezione COVID-19 rispetto al gruppo non vaccinato. Per esempio, nella fascia 5-11 anni, R=1,39 vuol dire che nel gruppo vaccinato di quella fascia d’età si sono osservati il 39% in più di casi rispetto ai non vaccinati.

Se R è minore di 1, il gruppo vaccinato ha ricevuto meno diagnosi di infezione COVID-19 rispetto al gruppo non vaccinato. Per esempio, nella fascia d’età 12-39 anni, R=0,97 vuol dire che nel gruppo vaccinato in modo completo/incompleto (ma senza booster) di quella fascia d’età si sono osservati il 3% in meno dei casi rilevati nel gruppo non vaccinato.

NB: il modo di rappresentare i dati da parte dell’ISS è all’opposto (cioè sono invertiti gli elementi del rapporto): è quindi indicato il tasso di un gruppo non vaccinato (al numeratore del rapporto) rispetto a quello di un gruppo vaccinato (al denominatore), di conseguenza R sarà minore di 1 quando è il gruppo non vaccinato ad avere meno diagnosi.

Si riproduce ora, solo per la voce “Diagnosi”, la Tabella 6 dell’ultimo Bollettino ISS (con tassi già calcolati dall’ISS):

Come si vede, i Rischi relativi per le classi di età riquadrate fino ai 79 anni (che includono anche tutti i lavoratori della Sanità, obbligati di norma al booster) sono inferiori a 1; ciò significa che in queste classi di età i non vaccinati si infettano meno dei vaccinati corrispondenti ai diversi stati vaccinali indicati nelle colonne. Ad esempio, nella classe 12-39 i non vaccinati hanno un tasso di diagnosi di 0,8 rispetto ai vaccinati con booster, dunque i non vaccinati si infettano circa il 20% meno. Se i calcoli si fanno sulla Tabella 5A del Bollettino ISS (anziché sulla Tab. 6), si evidenziano meglio anche i decimali, e si è riportato il tutto nei grafici delle slide, in modo probabilmente più facile da capire.

Si segnala anche che conta considerare le tendenze: si parte a gennaio 2022 con un diffuso riscontro di protezione dall’infezione nei vaccinati, ma a distanza di un certo numero di mesi, e comunque oggi, nelle fasce dai 5 fino ai 79 anni, la protezione iniziale si è trasformata nel suo contrario. Questi dati – se correttamente riportati alla Consulta – avrebbero già potuto chiudere il discorso sulla legittimità di un obbligo “per ragioni di solidarietà”.

Infatti, se a distanza di mesi dall’ultima dose la protezione dall’infezione si riduce fino a zero, e poi diventa negativa (cioè inferiore al livello dei non vaccinati), a meno di non ipotizzare richiami continui e ravvicinati per ripristinare una certa protezione, si dovrebbe concludere che a medio termine per la comunità il vantaggio iniziale si traduce in svantaggio.

(**) studi con conclusioni diverse spesso citati a sostegno di una protezione vaccinale dall’infezione sono afflitti in varia misura da problemi che ne inficiano la validità (follow-up breve limitato al periodo di “luna di miele con il vaccino”; presentazione dei dati come media di periodo, anziché mostrare la tendenza discendente della protezione nel tempo; esclusione degli asintomatici verso cui la protezione vaccinale è ancor minore; sponsor commerciali e/o conflitti di interessi degli autori…). Anche in questo caso si chiede di aprire un confronto scientifico senza censure, che ci consenta di dimostrare le nostre affermazioni.

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