“I governi dovrebbero smettere di usare la pandemia come una scusa per mettere a tacere l’informazione indipendente e il dibattito pubblico”, Amnesty International

“I governi dovrebbero smettere di usare la pandemia come una scusa per mettere a tacere l’informazione indipendente e il dibattito pubblico e rimuovere urgentemente tutte le indebite restrizioni ai diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica”, scrive Amnesty International nel suo ultimo rapporto globale. “I governi dovrebbero al contempo adottare o espandere le leggi che assicurano la creazione di un ambiente sicuro e costruttivo, che permetta alle persone di unirsi per difendere e promuovere i diritti umani ed abrogare o emendare le disposizioni che ostacolano la legittima attività delle Ong, anche in termini di ricerca, ricezione e utilizzo di fondi. È inoltre essenziale che i governi revochino i regimi normativi che richiedono l’autorizzazione preventiva per tenere raduni pacifici e assicurare che le misure d’emergenza e altri provvedimenti restrittivi, adottati durante la pandemia, non diventino la “nuova normalità”. Dovrebbero anche imporre controlli più stringenti sull’esportazione e importazione di equipaggiamenti che potrebbero avere una legittima funzione di controllo dell’ordine pubblico, ma che sono puntualmente usati in maniera impropria, come manganelli, gas lacrimogeni, spray al peperoncino e proiettili di gomma.

Invece che fornire uno spazio per la discussione e il dibattito su come affrontare al meglio le sfide del 2021, la continua tendenza dei governi è stata di reprimere le voci indipendenti e critiche, con alcuni che hanno perfino utilizzato la pandemia come pretesto per ridurre ulteriormente lo spazio civico. Durante l’anno, molti governi hanno intensificato i loro sforzi tentando di imporre e/o implementare misure repressive per prendere di mira coloro che li criticavano, molte di queste misure erano apparentemente volte a frenare la diffusione della disinformazione sul Covid-19. In Cina, Iran e in altre parti, le autorità hanno arrestato e perseguito persone che avevano criticato o contestato i piani di risposta al Covid-19. A livello mondiale, i governi hanno indebitamente impedito e disperso proteste pacifiche, in alcuni casi utilizzando il pretesto delle disposizioni per il contenimento della diffusione del Covid-19. Diversi governi, specialmente in Africa, Medio Oriente e Africa del Nord e Asia, hanno bloccato o pesantemente limitato l’accesso a Internet e ai social network; in paesi come Eswatini e Sud Sudan, l’accesso a Internet è stato in alcuni casi interrotto nel tentativo di far deragliare le proteste programmate. Gli attacchi contro giornalisti, voci critiche e difensori dei diritti umani, compresi quelli che difendevano i diritti delle donne e delle persone Lgbti, sono stati parte integrante di questa ondata di violenta reazione contro la libera espressione.

Una tendenza regressiva adottata nelle politiche dei governi è stata l’elaborazione e l’introduzione di nuove normative che hanno limitato i diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica. Sulla base del monitoraggio svolto da Amnesty International, è stato possibile accertare durante l’anno l’introduzione di norme di questo tipo in almeno 67 dei 154 paesi coperti dal presente rapporto, tra cui Cambogia, Egitto, Pakistan, Turchia e Usa. Allo stesso tempo, le restrizioni introdotte nel 2020, con la dichiarata intenzione di contrastare la diffusione del Covid-19, sono state mantenute anche quando la situazione della sanità pubblica era cambiata.

I difensori dei diritti umani e le persone critiche verso i governi hanno continuato a fare sentire coraggiosamente la loro voce, nonostante gli attacchi lanciati da governi e potenti interessi economici attraverso una sempre più ampia gamma di strumenti. Questi comprendevano detenzioni arbitrarie e procedimenti penali ingiusti, azioni legali intimidatorie e prive di fondamento, restrizioni amministrative e altre minacce, fino ad arrivare anche alla violenza, incluse sparizioni forzate e tortura. Sono anche aumentate le cause legali strategiche contro la partecipazione pubblica (strategic lawsuits against public participation – slapps), intentate contro i difensori dei diritti umani allo scopo di intimidirli e vessarli, come è accaduto in Kosovo agli attivisti che avevano sollevato il problema dell’impatto ambientale derivante dai progetti idroelettrici della compagnia austriaca Kelkos Energy. Anche il governo dell’Andorra ha intentato una causa legale per diffamazione penale contro un’attivista che aveva denunciato la situazione dei diritti delle donne davanti a un forum di esperti delle Nazioni Unite. In almeno 84 dei 154 paesi monitorati da Amnesty International sono stati documentati casi di difensori dei diritti umani arbitrariamente detenuti, e tra questi 17 dei 19 paesi della regione del Medio Oriente e Africa del Nord. Le Americhe sono rimaste una delle regioni più pericolose al mondo per chi difende i diritti umani, con decine di difensori dei diritti umani uccisi in almeno otto paesi. Gli eventi in Afghanistan e Myanmar hanno visto i difensori dei diritti umani affrontare inediti livelli di violenza e intimidazione, mentre le conquiste in materia di diritti umani venivano vanificate. In alcuni paesi, i governi hanno preso la drammatica decisione di chiudere Ong o mezzi d’in formazione, come in Russia e nella regione di Hong Kong in Cina, azioni che in precedenza sarebbero state ritenute impensabili. In Afghanistan, dopo la presa del potere dei talebani sono stati chiusi in tutto il paese più di 200 organi di stampa. In un attacco particolarmente sfrontato, la Bielorussia ha utilizzato la falsa minaccia della presenza di una bomba a bordo di un aereo civile su cui viaggiava un giornalista in esilio, per dirottare il volo così da poterlo arrestare. Gruppi marginalizzati che osavano reclamare un loro spazio nella vita pubblica e portare avanti le loro battaglie in difesa dei diritti umani si sono scontrati con una particolare serie di rischi e sfide, che andavano da forme di discriminazione ed esclusione, ad attacchi di stampo razzista e sessista, sia online che offline. I governi hanno fatto ricorso in maniera crescente anche a strumenti tecnologici, compresi spyware, per colpire giornalisti, difensori dei diritti umani, oppositori politici e altre voci critiche. Laddove le restrizioni dovute alla pandemia si sono sommate a preesistenti situazioni di repressione, le Ong in molti paesi, dall’India allo Zimbabwe, hanno dovuto affrontare nuove difficoltà per poter svolgere le loro attività o ricevere sovvenzioni dall’estero.

Attacchi allo spazio civico, alle comunità minoritarie e al dissenso sono arrivati anche da attori non statali, in alcuni casi armati, e talvolta anche in complicità con gli stati. Ciò è risultato particolarmente evidente in India, dove i dalit, gli adivasi e i musulmani hanno continuato ad affrontare abusi e crimini d’odio. In Brasile, gli omicidi di ambientalisti da parte di attori non statali sono continuati in maniera inesorabile. In Europa, in un contesto caratterizzato da crescenti livelli di razzismo, islamofobia e antisemitismo, le comunità minoritarie come le persone musulmane, ebree e altre, hanno subìto crescenti episodi di crimini d’odio, come è  accaduto in Austria, Francia, Germania, Italia e Regno Unito.

Di fronte alle proteste, il 2021 ha visto la crescente tendenza securitaria dei governi nei confronti dello spazio civico, con l’adozione di misure eccezionali, la criminalizzazione dei raduni pacifici, la militarizzazione delle operazioni di ordine pubblico, il ricorso a poteri derivanti da motivi di sicurezza nazionale per fronteggiare i movimenti di protesta e l’introduzione di nuove disposizioni volte a reprimere le manifestazioni. I metodi con cui le forze di sicurezza hanno reagito alle proteste sono stati in alcuni casi anche pesanti: Amnesty International ha documentato l’uso non necessario e/o eccessivo della forza contro i manifestanti in almeno 85 dei 154 paesi monitorati, trasversalmente in tutte le regioni. Le forze di sicurezza hanno regolarmente impiegato in maniera impropria armi da fuoco e armi considerate “meno letali”, come gas lacrimogeni e proiettili di gomma, uccidendo illegalmente centinaia di persone e ferendone molte altre. In alcuni paesi c’è stata una continua tendenza verso la militarizzazione delle risposte con cui lo stato reagiva alle proteste, incluso lo schieramento delle forze armate e l’impiego di equipaggiamento militare. Magistrature compromesse non sono intervenute per impedire gli attacchi contro i manifestanti, difensori dei diritti umani e altre persone critiche, quando non li hanno addirittura facilitati.

L’azione repressiva dei governi è spesso continuata con arresti e procedimenti penali e un crescente utilizzo di strumenti tecnologici, come il riconoscimento facciale e altre forme di sorveglianza, per identificare i leader delle proteste e i partecipanti.

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